L’ultrabiker Omar Di Felice racconta l’avventura in Antartide con le due ruote

L’ultrabiker Omar Di Felice racconta l’avventura in Antartide con le due ruote

Omar Di Felice - Antarctica Unlimited

Da alcune settimane l’ultrabiker romano Omar Di Felice, testimonial di Ferrino, è rientrato dall’ultima delle sue incredibili avventure sulle due ruote che lo ha portato attraverso le distese desolate del Continente di Ghiaccio.

Per 50 giorni e oltre 700 chilometri ha pedalato in totale solitudine, lottando contro le temperature estreme, i terribili venti catabalici e le condizioni più insidiose della neve. Anche se alla fine il Polo Sud, obiettivo finale del viaggio, è rimasto un punto ancora distante sulla carta geografica, questa è stata sicuramente una delle esperienze più forti ed entusiasmanti della sua carriera di atleta.

Così ce la racconta lui stesso.

 

Omar, sei andato in Antartide per raggiungere il Polo Sud con la tua bici, cosa che però non è avvenuta. Questo obiettivo mancato classifica l’avventura nella categoria “fallimenti”, oppure anche da questa esperienza hai potuto portare a casa qualcosa di positivo?

Avventure così lunghe ed estreme non si possono giudicare con un out-out. Raggiungere il Polo Sud in bicicletta non è una gara e in realtà non è neanche un obiettivo ben definibile a priori. Si tratta di attraversare la più grande calotta glaciale del pianeta, una cosa che non è mai riuscita a nessuno integralmente con una bici senza gli sci e rispetto alla quale non c’è una storia di altre esperienze con cui confrontarsi. Già alla partenza per me questa era una grande incognita e sarebbe riduttivo definirla vittoria o sconfitta solo sulla base del raggiungimento del Polo. Il mio obiettivo principale era quello di riuscire a fare il massimo possibile rispetto alle condizioni che avrei trovato; aver trascorso pedalando tutti i 50 giorni dei permessi che mi erano stati concessi e aver resistito, aver vissuto ed essere sopravvissuto in quelle condizioni in sella ad una bicicletta per me vale già la definizione di successo personale.

 

Nei tuoi racconti della spedizione hai spiegato che ben presto ti sei reso conto che non saresti riuscito ad arrivare al Polo. Nonostante ciò, hai proseguito senza perderti d’animo. Cosa ti ha dato la motivazione per andare avanti? Quale obiettivo si è sostituito nella tua mente a quello iniziale?

Il cambiamento di prospettiva che mi ha consentito di non mollare è stato sostituire nella mia testa quella che era la tabella di marcia ideale verso il Polo con una tabella di marcia definita giorno per giorno, in base a quelle che erano le condizioni che mi trovavo ad affrontare. Dovendo pedalare con una bici che ha una slitta di quasi 90 chili al traino, devi accettare di muoverti in base a quelle che sono le condizioni della neve. C’erano giorni in cui riuscivo a percorrere anche 30 o 35 chilometri e altri in cui la neve e il vento non mi consentivano di fare più di 700 metri l’ora. Sicuramente la lezione più grande di questa esperienza è stata quella legata al senso del limite: c’è un limite dettato dalla natura che sta in relazione ai nostri limiti personali e a quelli delle nostre attrezzature tecnologiche. Dall’incrocio di questi tre fattori è venuto fuori quel numerino finale: 716, ovvero il totale dei chilometri che ho percorso e che, per quanto mi riguarda, mi rendono totalmente soddisfatto di ciò che sono riuscito a fare.

 

Quanto è difficile per uno abituato a non mollare mai accettare il fatto che è arrivato il momento di dire “stop!” e tornare indietro?

Se durante la traversata avessi ragionato in modo “tradizionale”, probabilmente mi sarei arreso molto prima, mi sarei depresso e avrei definito questa avventura una sconfitta, un fallimento. In realtà quando ti muovi in queste condizioni prendi il buono che ne viene, impari quello che il territorio ti sta dando e accetti il fatto di fare il massimo possibile. Se tornassi in Antartide il prossimo anno forse potrei fare qualche chilometro in più o magari arrivare al Polo Sud, oppure anche meno strada di quella che ho percorso questa volta. Ma sono esiti che non dipenderebbero esclusivamente da me. Come ho già detto: lì ho trovato il limite e ho dato il 100% per avvicinarmi il più possibile ad esso, il resto è affidato alla potenza stupefacente della natura antartica, su cui non si può avere alcun controllo.

 

Più volte hai dichiarato che l’Antartide si è rivelato qualcosa di totalmente “altro” rispetto a tutto ciò che fino ad ora avevi affrontato, anche rispetto all’ambiente artico che già avevi affrontato nell’avventura fra Canada, Alaska e Nord Europa. Cosa lo rende un luogo così estremo e speciale?

L’Antartide è un luogo alieno rispetto a tutto il resto del pianeta. Sono stato nel nord del Canada e dell’Alaska. Sono stato in Groenlandia, in zone remote dove per 100 o 150 chilometri veramente non c’è neanche l’ombra di un animale. Nulla però è paragonabile all’Antartide, non tanto per le condizioni meteo, quanto per quelle di vita e di isolamento. Laggiù sei completamente solo per centinaia di chilometri e se ti accadesse qualcosa non avresti la certezza di poter essere recuperato in poche ore. Questa idea ti si instilla nella mente dal primo passo che muovi e fa sì che sia tutto diverso. Qualunque cosa fai sai bene che potrebbe essere fatale. Anche il più banale incidente può generare conseguenze catastrofiche. Mentre ero in spedizione ad esempio ero in contatto con il telefono satellitare con un ragazzo che stava tentando la traversata con gli sci. Ad un certo punto ha iniziato a stare male: non riusciva ad urinare. Era uno stupidissimo problema di calcoli renali, una cosa che in situazioni normali si risolve con un ricovero di pochi giorni. Ma riuscire a tirarlo fuori da lì per portarlo al campo base e poi in un ospedale in Cile è stata davvero un’impresa estrema!

 


Hai trascorso decine di giorni da solo fra paesaggi sconfinati, in un continente quasi totalmente disabitato. Cosa accade quando si vive una solitudine così immensa, persino difficile anche solo da concepire?

Vivere in questa condizione ti fa cambiare la prospettiva sulle cose. È uno dei motivi per cui dico che non riesco a guardare questa esperienza in termini di sconfitta o vittoria. In un ambiente così grande e così dominante rispetto a quelle che sono le tue possibilità, si capisce veramente quanto la natura sia più grande di noi e quanto sia il caso anche di rivedere un pochino quelle che sono le nostre possibilità. È un’esperienza che ti insegna a rispettare la natura e anche te stesso. In fondo nella vita di tutti i giorni è poco il tempo che passiamo soli con noi stessi; sono ben poche le volte che ci capita di fermarci a riflettere, senza avere nessun condizionamento esterno. Quando passi 50 giorni in Antartide, completamente da solo e parli solamente con te stesso, allora questo confronto così intimo e vitale viene portato alla massima potenza.

 

Hai detto che per te l’Antartide è un capitolo chiuso e che lì hai sperimentato che ci sono limiti che non è giusto superare. È un’affermazione molto interessante, soprattutto perché fatta da un’ultra-atleta, ovvero da qualcuno che dell’esplorare e superare il limite ha fatto in qualche modo la sua ragione di vita. Forse però non è una considerazione che riguarda solo la tua filosofia sportiva, ma ha un significato ancora più ampio e profondo. Ce ne vuoi parlare?

Un po’ tutti siamo cresciuti con questa retorica dell’ultra, che vuol dire andare oltre ogni limite, ad ogni costo. E questo ad ogni costo, secondo me è quello che stona. È giusto esplorare i propri limiti, è giusto alzarsi dal divano e fare un passo in più rispetto a quello che pensiamo di essere in grado di fare. Questo è sicuramente ciò che mi muove e mi motiva ogni giorno, è la mia ricerca costante: cercare sempre di capire quali sono i miei limiti e portarli sempre un po’ più in là. Però nel farlo non bisogna vivere come un’ossessione questo superamento. Il limite non va superato ad ogni costo e, soprattutto, il limite esiste! Dire “se vuoi puoi”, sempre e ad ogni costo, è un’idea perversa. In Antartide, che è il luogo più remoto ed estremo dove qualcuno possa pensare di fare un'avventura in bicicletta, sapevo che avrei trovato da qualche parte un limite e ho imparato anche ad accettarlo, tornando a casa soddisfatto di aver dato tutto ciò che potevo dare, nel rispetto del limite stesso e della mia vita.

 

Probabilmente in questa spedizione ancor più che nelle precedenti hai avuto modo di mettere alla prova i materiali tecnici di Ferrino. Quali attrezzature avevi con te e come si sono comportate durante un utilizzo così estremo e prolungato?

Se devo essere sincero nella preparazione della spedizione non abbiamo lavorato troppo sulla personalizzazione delle attrezzature, cercando di elaborare qualcosa di speciale, pensato appositamente per la spedizione. Mi sono affidato ai prodotti tecnici che Ferrino ha in catalogo, già ampiamente testati per l’uso in condizioni estreme nell’ambiente outdoor. Con me avevo la tenda Blizzad, già compagna fidata di tante spedizioni, alla quale abbiamo apportato solo qualche piccola modifica per rendere più agevole il montaggio e lo smontaggio con i terribili venti antartici. Poi il sacco piuma Revolution 1200, il migliore della serie come potere di isolamento termico, e una serie di materassini accoppiati gonfiabili e non. Quello che per me ha fatto la differenza, confermando la reputazione che Ferrino si è guadagnata negli anni, è stata la totale affidabilità. Quando devi stare 50 giorni da solo in Antartide devi avere la tranquillità di sapere che la tenda non si strapperà, che il palo non si romperà, che il materassino non ti lascerà letteralmente a terra… Su questo, ancora una volta, devo dare il massimo dei punti a Ferrino: dal primo all’ultimo giorno le sue attrezzature mi hanno garantito di fare quello che facevo in sicurezza e di non lasciarmi mai veramente scoperto. Infatti tutti i materiali sono tornati a casa totalmente integri e senza nessun tipo di danno.

 





Volete conoscere Omar e fargli qualche domanda dal vivo? Venite al Ferrino Store Torino (Corso Matteotti 2L, Torino) a conoscerlo, martedì 13 febbraio alle 18. 

Tutti i retroscena di Antarctica Unlimited, la spedizione di 700 km, per due mesi in sella, a -30 gradi di temperatura e con una tenda come unico punto di appoggio.
Ingresso libero.