Pieroad - Outback Desert

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LE VIE DEI CANTI

 

All’inizio del tempo, l’Australia era una terra piatta e priva di vita. Immense entità scesero dal cielo, giunsero dal mare ed emersero dalle viscere della terra. Con il loro arrivo, la Creazione ebbe inizio e la vita cominciò a pulsare. A mano a mano che si muovevano attraverso l’Australia, le entità davano forma alla terra con i loro corpi, creando fiumi e catene montuose e foreste piene di vita. In tutto ciò che toccavano lasciavano parte di esse, rendendo sacro ogni angolo di mondo per chi avesse saputo guardare. A oriente, Biame giunse alla baia di Sydney, ne plasmò la costa, e dopo avere compiuto la sua opera si diresse verso le montagne, da dove fece ritorno al cielo. Il suo cammino disegnò il letto del grande fiume Parramatta e il commiato alla terra elevò la catena delle Blue Mountains dal suolo. Il tempo iniziò a scorrere e con esso l’acqua del fiume, dalle montagne alla baia.

 

I primi uomini iniziarono ad abitare la terra: gli Aborigeni. Il loro peregrinare ancestrale li sparse sul territorio come briciole di pane su un immenso tavolo. Rimasero fedeli alla natura nomade dei loro Antenati, divennero cacciatori e raccoglitori, e in una vita priva di foga scelsero di celebrare la loro dimora santificando i luoghi che imparavano a riconoscere. Per quarantamila anni conobbero e ricordarono ogni angolo di Australia, senza mappe né strade, e cantandone le storie diedero voce alle Vie dei Canti. Negli sguardi, tra le labbra, nella memoria collettiva di centinaia di popolazioni, queste canzoni senza tempo guidarono i passi degli Aborigeni nel primo pellegrinaggio della storia umana: il Walkabout.

 

Il Walkabout era il modo con cui gli Aborigeni si muovevano per le terre inospite dell’Australia. Essendo sprovvisti di scrittura, si affidavano esclusivamente alle tradizioni orali, imparando dove andare e come spostarsi grazie alle loro canzoni. Esse indicavano dove trovare cibo, in che periodo, come orientarsi nel deserto e quando muoversi in accordo alla stagione. Le Vie dei Canti segnavano la posizione di ciascun albero, roccia e orizzonte, vestigia delle impronte con cui gli Antenati avevano plasmato la terra. L’intera Australia, un’area grande quanto l’Europa, fu “mappata” con innumerevoli canzoni nel corso di decine di migliaia di anni, creando una connessione vertiginosa tra la terra e i suoi abitanti. L’arrivo dei coloni inglesi, a fine ‘700, spazzò via questa cultura nel giro di appena due secoli. Ormai, assieme agli Aborigeni, anche le tracce invisibili delle Vie dei Canti stanno scomparendo. Gli antichi racconti sono avvizziti in parole sparse e sconnesse, ma ciò che rimane ha ancora il potere di suggestionare e qualche traccia è fortunatamente riuscita a sopravvivere.

 

 

LA VIA DELL’OCRA

 

Gli Arabana erano un gruppo tribale stabilito a nord dell’attuale metropoli di Adelaide, capitale del South Australia[1]. Vivevano in un territorio ricco di ocra, materiale usato come pigmento nelle pitture rupestri, in medicina e a scopi cerimoniali. L’ocra veniva barattata con popolazioni vicine e lontane, e nel tempo venne data voce a una Via del Canto che attraversava il Paese da sud a nord. La rotta di scambio serpeggiava nell’Outback, il gigantesco deserto seduto nel centro dell’Australia, eludendo temperature che d’estate sfiorano i 50 gradi e fornendo un percorso affidabile per tremila chilometri, fino alle estreme propaggini settentrionali.

 

La Via fu cantata per quarantamila anni e nel 1860 venne tradotta da alcuni interpreti a John McDouall Stuart, un avventuriero scozzese. Confidando sulle conoscenze maturate dai nativi, Stuart si cimentò in una serie di imprese che culminarono nella traversata del Paese, diventando il primo esploratore occidentale a penetrare il cuore del deserto e arrivare fino alle sponde dell’Oceano Indiano. Per l’Australia moderna fu una svolta epocale. Basandosi sulle informazioni raccolte da Stuart, vennero costruite la linea ferroviaria e quella del telegrafo. Adelaide e Melbourne avevano finalmente un collegamento diretto con Darwin e il suo porto affacciato sull’Asia.

 

Prima di allora era necessario circumnavigare l’intera Australia. È difficile fare un confronto con l’Europa, ma se prendessimo in considerazione solo le distanze, vorrebbe dire che tra Lecce a Oslo non c’erano strade ma solamente una landa sconfinata priva di evidenti punti di riferimento e l’unico modo per andare dall’una all’altra era fare il giro del continente navigando per il Mediterraneo, lo stretto di Gibilterra e risalendo infine la costa occidentale fino a giungere a destinazione. Le distanze australiane sono impressionanti e per coglierle serve uno sforzo di immaginazione notevole. In alternativa, si possono riscoprire i solchi lasciati da Stuart e la Via del Canto dell’ocra unendo sperduti puntini sulla mappa e mettendo in piedi una logistica meticolosa per affrontare l’indifferenza del deserto. Solo camminando ci si può rendere conto delle immensità che le popolazioni nomadi hanno abbracciato; è dunque camminando, tra maggio e settembre 2023, che ho provato a viverle.

 

 

RODAGGIO

 

Arrivai ad Adelaide dopo un consistente rodaggio. Ero partito da Sydney, a piedi, un mese prima, in modo da entrare gradualmente negli ordini di grandezza australiani prima di affrontare il deserto. Sydney è adagiata a oriente delle Blue Mountains, superate le quali, per centinaia di chilometri, campi di grano, orzo, lupini e lenticchie fanno a gara per spostare l’orizzonte sempre più lontano. Le città erano lentamente scemate in paesi isolati, poi in centri abitati con poche decine di persone.

 

Le prime settimane ricordavano il cammino nella Pampa argentina. Ampie distese di terra squadrata e pascoli senza fine, pochi animali a quattro zampe, meno uomini, tanto cielo. Le estancias latinoamericane si chiamavano ora stations, un nome diverso che racconta la stessa storia di coloni caparbi votati all’allevamento di pecore e vacche. Un’unica strada si allungava fino alla fine della visuale prima di scomparire nella prospettiva. Stavolta, però, non c’era la sagoma imponente delle Ande a dettare confini. I tronchi bianchi degli eucalipto le avevano sostituite e dalle loro chiome fruscianti gli uccelli mandavano i loro richiami. Imparai a riconoscere la risata del Kookaburra e il verso etereo dei Butcherbird, il trillo dei pappagalli verdi e il lampo candido dei cacatua. La monotonia del paesaggio ne risaltava suoni e movimenti e veniva da pensare che forse le Vie dei Canti si erano ispirate a loro per dare voce al mondo conosciuto.

 

Nei 1400 chilometri percorsi tra Sydney e Adelaide, notai un elemento ricorrente: ogni villaggio era provvisto di un ufficio postale in minimi termini. A volte la stessa stazione di servizio, immancabile salvagente per i veicoli che si avventurano su queste strade infinite, svolgeva la funzione di ricezione e spedizione della posta. Era un dettaglio importante, perché nella parte successiva del cammino avrei potuto inviare del cibo nei punti per i quali sarei passato. Anche con Ezio, il passeggino che trasporta tutto ciò di cui ho bisogno, non sarebbe stato possibile stivare provviste a sufficienza per attraversare tutto il deserto.

 

 

ULTIMI PREPARATIVI - CON IL FIATO SOSPESO

 

Adelaide era l’ultima grande città per la quale sarei passato. Dopo di lei, Darwin. Tremila chilometri a separarle e un unico centro abitato rilevante nel mezzo, Alice Springs, la capitale del deserto, appena ventimila abitanti ma, dato fondamentale, un supermercato dove approvvigionarsi. Da Adelaide ad Alice Springs ci avrei messo due mesi e mezzo, camminando al ritmo di 40/45 chilometri al giorno - dieci ore pause comprese. Calcolai grossomodo un giorno di pausa ogni dieci. I tempi del visto lasciavano poco margine e per approfittare dell’inverno ed evitare i cinquanta gradi delle altre stagioni, avrei portato avanti una marcia serrata.

 

Decisi a tavolino cosa avrei mangiato per i mesi successivi, a ogni pranzo e cena. Importavano praticità e apporto energetico, il sapore passava in terzo piano. Per i pranzi comprai sei chili tra riso e quinoa, per le cene due di lenticchie e due di proteine vegetali. Feci incetta di avena, latte in polvere e cacao per la colazione, e per le merende frutta secca, miele, burro di arachidi e cioccolato. Buste di frutta e verdure crioessiccate avrebbero sopperito almeno parzialmente alla carenza di vegetali freschi.

 

Era poco saggio fare affidamento su ciò che avrei potuto trovare lungo la strada, dunque partivo con l’idea che avrei comprato poco o niente per i mesi successivi. Ezio superava i cinquanta chili quando muovemmo i primi passi verso la periferia di Adelaide. Oltre al cibo, trasportava una decina di litri di acqua, che alle temperature invernali equivaleva a cinque o sei giorni di autonomia; una piccola farmacia, completa di bendaggio e rimedi contro il veleno di serpente; pezzi di ricambio, un pannello solare per ricaricare i dispositivi elettronici, cucina a gas e a benzina con le relative bombole. Maggio era agli sgoccioli quando ci avviammo per seguire le tracce di Stuart verso il deserto e dentro noi.

 

La strada si allontanava dalla costa puntando verso nord-est e le Flinders Ranges, una bassa catena montuosa che si estende per 400 km in direzione nord. Stuart la utilizzò come iniziale punto di riferimento mentre si dirigeva verso le immense distanze sconosciute delle regioni ulteriori. La presenza dei rilievi mitigava il clima, proteggendo l’area dagli sbalzi delle zone interne. Gli eucalipto erano ancora rigogliosi e la mattina la tenda era umida. Incrociavo quasi un insediamento umano al giorno, tuttavia mano a mano che proseguivo i segni della presenza dell’uomo si facevano radi. Per lunghe ore, l’unico segno tangibile della presenza umana era la strada che stavo calcando. Riuscii a mantenere stabili le provviste ma l’attesa del deserto divenne snervante. Stavo aspettando con trepidazione di confrontarmi con lui.

 

Ricordavo il cammino nel deserto di Atacama, in Cile, un anno prima. Una lezione che avevo imparato è che per connettersi alla sua dissoluzione servono giorni, talvolta settimane. Più a lungo rimani nel deserto, più a fondo riesci a scavare. Conoscersi è una sensazione vertiginosa e a tratti, in un inaspettato ribaltamento di prospettive, la nostalgia toglieva il suo mantello da casa per avvolgere il tempo trascorso dentro l’Atacama. I suoi spazi immoti suggerivano idee di infinito, morte, dio, bellezza, quiete. Nient’altro poteva dimorare tra quelle pietre grigie. Come eterne guardiane, esse porgevano lo specchio nel quale osservare le proprie fragilità: quelle dell’uomo come comparsa e dell’umano in quanto mortale.

 

 

OODNADATTA TRACK

 

Ci vollero tre settimane per arrivare alle porte del deserto. La strada si interrompeva bruscamente al villaggio di Marree, venti anime in tutto, lasciando a una pista di terra il compito di guidarmi. La stazione di servizio era un bugigattolo immerso nella penombra che offriva cibo arrivato settimane prima con l’arrivo dell’ultimo camion. I prezzi erano proibitivi e la scelta scarsissima. Il fondo del negozio era dedicato ai ricambi per auto, moto e biciclette: camere d’aria, liquidi sigillanti per le forature, qualche vite, dei panni incellofanati. Vicino alla cassa erano esposti degli articoli da turismo, tra i quali campeggiavano cartoline sbiadite e adesivi. Uno di essi recitava: WHERE THE HELL IS MARREE?

 

Sorrisi per un attimo, poi lo sguardo fu catturato da una toppa verde bordata di giallo, di quelle che si usano cucire agli zaini per avere un interruttore da far scattare quando si cerca di fare conversazione. La toppa consisteva in una scritta semplice, con dei numeri segnati in piccolo subito sotto. La scritta: OODNADATTA TRACK. I numeri: WILLIAM CREEK 204 -  OODNADATTA 406 - MARLA 613. Una sensazione di vuoto mi prese lo stomaco. Quei numeri erano distanze e indicavano quanto avrei dovuto camminare nelle settimane successive per arrivare da un punto all’altro della pista, poco più che nomi su una cartina. Il chilometraggio era calcolato da dove mi trovavo in quel momento, il centro abitato di Marree, inizio dell’Oodnadatta track.

 

Oodnadatta track è il tracciato che ha subìto meno modifiche rispetto alla rotta percorsa da Stuart centocinquant’anni fa e di fatto rappresenta il pezzo più autentico, difficile, immersivo e alienante della Explorer’s Way, la strada che ricalca i passi dell’esploratore attraverso l’Outback. Pochi anni dopo l’impresa di Stuart, telegrafo e treno a vapore sorsero lungo la pista, favorendo lo sviluppo di alcune modeste stazioni per il funzionamento della linea ferroviaria. Furono migranti afghani, tra gli altri, a costruire le rotaie; e furono gli Afghani a introdurre, per la prima volta, i cammelli in Australia. L’ambiente arido era a loro congeniale e presto vennero impiegati in modo estensivo per il trasporto di merci lungo le piste del deserto. La linea ferroviaria venne in seguito battezzata The Ghan, per omaggiare il contributo afghano alla sua costruzione.

 

Il treno funzionò per un secolo, fino a quando, nel 1980, fu traslato a ovest, a braccetto dell’attuale Stuart Highway, il serpente asfaltato che corre da Adelaide a Darwin per la via più dritta. Lo spostamento della linea portò alla morte delle stazioni: private del lavoro, le persone fuggirono da ambienti tanto ostili e isolati. Solamente due centri sopravvissero al tramonto: William Creek e Oodnadatta, i nomi che la toppa verde intervalla con oltre duecento chilometri.

 

Dalle informazioni di chi vi si era avventurato con i fuoristrada, mi ero fatto un’idea delle condizioni della pista e dubitavo di poter seguire il ritmo mantenuto fino ad allora. Nella mia testa, duecento chilometri diventavano cinque giorni di cammino, forse sei. Nel mezzo, il nulla antropico. Nessun tipo di infrastruttura a parte alcuni rottami arrugginiti della ferrovia, niente approvvigionamenti. Per tre volte, duecento chilometri alla volta, ci sarebbero stati soltanto la traccia, il deserto ed Ezio. Il mondo si sarebbe ristretto al presente e ciò di cui avevo bisogno si sarebbe rimpicciolito a tal punto da stare esclusivamente dentro a un passeggino. Si cominciava a fare sul serio.

 

La sera prima della partenza giocai a dadi con dei ragazzi conosciuti al villaggio, migranti contemporanei provenienti da Italia, Cile e Argentina. Dentro al container adibito a cucina, spagnolo e vino rosso siedevano assieme a noi attorno al tavolo della fortuna. Tentammo la sorte mentre la notte ingrandiva le ore;  quando furono sul punto di rimpicciolirsi, andammo a dormire. Il sacco a pelo mi accolse generoso, come sempre, ma dormii poco, come spesso accade alla vigilia delle partenze importanti.

 

Per approfittare di tutte le ore di luce, la sveglia era impostata alle cinque e trenta del mattino; mezz’ora dopo ero in strada. Superato il villaggio, la linea dell’asfalto sbiadiva nella terra fine. Un cartello alto, a cavalcioni sopra di essa, diceva allarmato che la pista era chiusa, mentre a est l’aurora colorava di rosa e arancio le prime ore del giorno; non c’erano ombre tra noi e il sole.

 

 

DENTRO IL SILENZIO

 

M’incamminai deciso verso nord, cominciando a osservare e annotare mentalmente le condizioni della strada. Stavo giusto pensando che i racconti, come al solito, avevano ingigantito le difficoltà della pista, quando Ezio rallentò improvvisamente sul lato destro, come fosse trattenuto da una forza invisibile. Spostai lo sguardo sul fianco, facendolo scivolare fino alla ruota: bucata! La punta accuminata di uno spinifex sbucava dal copertone. La terra era un impasto di fango secco, arbusti e croste di sale che celava minacce sotto la sua scorza dura. Dopo la sostituzione rimanevano due camere d’aria per le ruote posteriori e due per quella anteriore; tra i ricambi c’erano anche toppe e colla per gomma, dunque per il momento avrei potuto stare tranquillo; ma il fatto d’aver bucato dopo appena due chilometri era un segnale sconfortante.

 

La prima giornata serve a calibrare le stime fatte a tavolino: che fare se sono sbagliate? Per tornare indietro serve umiltà, almeno quanto andare avanti richiede coraggio e fiducia. Una foratura, in un ambiente come il deserto, fa drizzare le antenne e proseguire con cautela estrema, con i muscoli tesi e gli occhi che saettano da una parte all’altra del tracciato come se all’improvviso si fosse trasformato in un letto di vetri rotti. Con il passare delle settimane, Ezio si sarebbe alleggerito dal peso del cibo, esercitando dunque una pressione minore sulle ruote e per questo diminuendo la probabilità di forare. Tuttavia sarebbe successo lentamente, al ritmo di mezzo chilo al giorno - l’acqua si poteva considerare costante perché andava ricaricata a ogni stazione.

 

Pensai tutto questo mentre pompavo aria nella nuova camera d’aria e l’avrei ripetuto ogni mattina, come una litania, nelle settimane successive, aggiornando le provviste rimaste, il peso che Ezio portava, e ogni minuscola variazione che desse qualcosa da contrapporre alla pressione esercitata dal deserto contro la mente e il corpo.

 

Il resto della giornata filò liscio. Verso le quattro il gps segnava quaranta chilometri, una cifra ragionevole. Cominciai a cercare un posto dove campeggiare e una collina ricoperta di pietre sembrò il luogo ideale per piantare la tenda. L’ultima fatica della giornata fu la scalata sconnessa per giungere alla sua sommità. Non avevo calcolato il terreno accidentato e levare i sassi da davanti a Ezio portò via più tempo del previsto. Quando arrivai in cima, però, la vista era sensazionale.

 

Il paesaggio era assolutamente banale, privo di montagne superbe o colori sgargianti. Eppure, aver sudato la giornata e, da ultima, la collina, aveva vestito quelle rocce scure con l’aura della bellezza. La fatica aveva steso un velo davanti agli occhi e il mondo che osservavano pareva avesse acquisito un senso e una quiete che altrove non potevano esistere. Dietro alla collina, a sud, una lingua di terra dai bordi rialzati suggeriva l’origine di quell’insolito pellegrinaggio. Dalla parte opposta, la traccia scompariva dietro l’ennesimo dosso, divorata dal suolo. Il posto non aveva nome, né un numero che indicasse ufficialmente a che punto si trovasse rispetto a Marree. Anche descrivendolo dettagliatamente o mostrando una foto, quel luogo sarebbe introvabile a chiunque tentasse di arrivarvi; e persino a chi avesse le coordinate geografiche esatte rimarrebbe sconosciuto, perché quando vi giunsi, provato dal cammino, avevo la disposizione d’animo adatta per fermarmi e apprezzarlo. Mi piacque pensare che, probabilmente, ero la prima persona a gioire di quell’angolo di mondo insignificante.

 

 

UN NUOVO DESERTO

 

La quantità di fiori che spuntavano sul ciglio della pista era impressionante. Imparai presto a riconoscerli, pur non sapendo i nomi con i quali erano classificati. Giallo e viola erano i colori dominanti; poi il bianco e il rosso. C’era un fiore con la corolla rosa e verde a forma di coccarda, il centro giallo, e toccandolo lasciava sui polpastrelli la sensazione delicatamente rugosa della carta velina. Un arbusto con le spine verdi e carnose sfoggiava un pon pon sferico giallo simile alla mimosa mentre ai suoi piedi le margherite avevano raccolto il fuoco al centro dei petali e spandevano un profumo di tea tree esageratamente intenso per le loro piccole dimensioni. Li cercavo con lo sguardo soprattutto al pomeriggio, quando ero più stanco, e sembrava di ritrovare degli amici da poco conosciuti. Dare loro appuntamento aveva poco senso: si palesavano all’improvviso, a pochi passi, scotendo il capo per assecondare il vento.

 

Le ore si dilatavano e i giorni acquisivano una densità opprimente, confondendosi e separandosi a seconda del grado di concentrazione. Aveva senso distinguerli? A tratti pareva di no, anzi tenerne conto faceva sentire stanchi; però a non farlo sembrava di impazzire, perduti in un tempo senza forme che non parlava alcuna lingua. Il lago Eyre apparve per poche ore all’alba del terzo giorno; o forse era il crepuscolo del quarto? La notte in cui vi accampai di fronte, un lungo ululato fece rabbrividire la notte, seguito da lugubri eco. Era il saluto dei dingo, i cani selvaggi e liberi del deserto. Perchè c’è un lago nel deserto? E come si spiegano i fiori?

 

L’Outback è una regione di contrasti. Sebbene la sua superficie sia inospitale, a migliaia di metri di profondità giace una delle falde artesiane più estese della terra, il Grande Bacino Artesiano. Si tratta di una riserva d’acqua dolce creatasi milioni di anni fa a partire da un mare interno all’attuale Australia. I serbatoi sotterranei contengono miliardi di litri di acqua e vengono alimentati annualmente dalla stagione delle piogge che tormenta le regioni tropicali, a nord. L’acqua si infiltra per chilometri nel terreno permeabile e finisce la sua corsa nel letto del bacino artesiano. In alcuni punti vi sono delle risalite che alimentano sorgenti: ecco come la vita resiste in queste zone micidiali. Fu grazie alle sorgenti che gli Aborigeni riuscirono a stabilire la Via del Canto dell’ocra, annotando verbalmente la posizione di ciascuna di esse; e fu grazie a loro che Stuart riuscì ad attraversare il deserto per la prima volta.

 

Il lago Eyre, oggi, è una crosta di sale inadatta alla vita, testimone di un mare estinto. Le riserve d’acqua sono sepolte duemila metri sotto il suolo ed è raro scorgere una sorgente attiva. Tuttavia, posso chiamarmi fortunato. Negli anni passati la stagione delle piogge è stata particolarmente abbondante e da nord i torrenti sono arrivati a bagnare il cuore dell’Australia. Per una volta, paradossalmente, il cambiamento climatico ha favorito la vita.

 

 

SENZA PAUSE

 

A mano a mano che i giorni scorrevano, la solitudine acuiva la sensazione di alienamento. Il morale cominciò a dondolare su un’altalena e in alcuni momenti sembrava che la distanza rimasta fosse troppo grande. Lo sconforto si sedeva sul petto e lo opprimeva, sapendo che non avevo nulla da contrapporgli per distrarmi. Erano mesi che camminavo nell’Outback e non avevo ancora coperto metà della distanza. Raggiungere Darwin sembrava troppo, troppo lontano. Mesi. Mancavano altri tre mesi all’arrivo. La superficie della pista era diventata sconnessa e rendeva lento e penoso andare avanti. Ci si metteva anche il vento, inaspettato, che ricordando in modo sinistro le folate rabbiose della Patagonia, spingeva costantemente contro il senso di marcia. Non ci fu giorno che soffiasse a favore.

 

Arrivavo alla sera sfibrato, con i muscoli appesantiti, e una volta scelto dove campeggiare dovevo alzare la guardia per controllare la presenza di ragni o serpenti velenosi. Una volta, poggiando il telo impermeabile sulla tenda, un ragno peloso grande quanto il palmo della mano apparve correndo nevroticamente. Era disgustoso. Cercai di spostarlo con un ramo secco, ma quello scivolò via imperterrito e con estremo orrore scomparve sotto il catino. Fu impossibile stanarlo. Immagini disturbanti lo proiettavano schiacciato e sanguinolento sotto la mia schiena, oppure ad aspettare la complicità del buio per sgusciare accanto all’unica fonte di calore delle vicinanze: il mio corpo umano sdraiato. Il solo pensiero faceva rabbrividire. Tenere a bada l’immaginazione è particolarmente difficile quando si è stanchi, soli e in un ambiente ostile. Ma proprio perché ero solo e in un ambiente potenzialmente mortale non potevo lasciare che lo sconforto mi abbattesse.

 

Dopo cinque giorni di marcia, la traccia tornò all’asfalto per mille benedettissimi metri. Ero arrivato a William Creek, il primo avamposto sull’Oodnadatta track. Un pub, affiancato da una pompa di benzina e un hangar che custodiva aerei a elica, erano gli unici edifici. A causa dell’isolamento, posti come questo dispongono di una pista per charter. Gli aerei vengono usati per il rifornimento merci, salvataggi d’emergenza delle persone che, perse nel deserto, riescono a mandare un segnale di aiuto e, in alcuni casi, anche per turismo. Scolai due litri di acqua fresca e misi sotto i denti una  meat pie calda e saporita, la sfoglia ripiena di carne tipica dell’Australia. Per caricare il gps ci vollero due buone ore; poi fu tempo di tornare sulla via.

 

 

CI VUOLE METODO

 

Avevo coperto appena un terzo del track ma la disconnessione sembrava durasse da settimane. Ci vollero altri dieci giorni per portarlo a termine e tornare a un barlume di umanità: una strada asfaltata, qualche cartello stradale, un camion ogni tanto. La connessione a internet rimaneva assente, lasciando spazio al dialogo interiore. Capii che avevo bisogno di attenermi a un metodo se non volevo uscire di testa e perdere la concentrazione. La sfida divenne macinare chilometri secondo un piano stabilito: pause regolari, nessuna variazione e focus sul futuro immediato, le tappe da qui a una settimana. Accantonai momentaneamente l’idea di arrivare a Darwin e finalmente entrai nel deserto, abbracciando il percorso giorno dopo giorno. La mente vagabondava sognando a occhi aperti storie e viaggi nei minimi particolari. Ma divenne naturale anche silenziare i pensieri, lasciare che le gambe andassero avanti da sole e guardare per ore e ore il cielo azzurro e terso, sgombrando la mente cercando di imitarlo.

 

Erano momenti di pace totale che facevano venir voglia di vivere per sempre all’aria aperta e dormire in tenda e mangiare guardando l’orizzonte dal ciglio della strada. Stare sotto al cielo immenso mi riempiva di gioia. Nell’aria cominciò a pulsare un senso di libertà potente perché, finalmente, ero arrivato a un equilibrio. Il deserto era entrato dentro di me. Aveva scavato un buco e poi aveva suggerito come fare per riempirlo: per risalire l’abisso era necessario lasciar andare cose e persone e arrivare fino ai pezzi di identità che si credevano avvinghiati tanto a fondo da essere impossibile rinunciarvi. Eppure le radici si possono tagliare. Dall’iniziale disorientamento si passa all’angoscia per mancanza di punti di riferimento, i colori assumono toni cupi; ma dopo essersi perduti, ci si ritrova, e si osserva che anche se dentro tutto è cambiato, fuori le cose si svolgono ancora allo stesso modo. Liberarsi dalle narrazioni che hanno formato la tua identità, ti avvicina alla tua essenza. La libertà è tale che, volendolo, forse è persino possibile tornare indietro. L’unica risposta la conosce il tempo; e per ora non me l’ha voluta dire.

 

I mesi restanti proseguirono lentamente, tenendo compagna a Ezio e me. Camminammo per altre migliaia di chilometri e facemmo una deviazione di due settimane per andare a omaggiare Uluru, il monolite sacro agli Aborigeni, custode dei miti e delle leggende della creazione. Una volta giunti ad Alice Springs, ci riposammo pochi giorni. Il tempo del visto ticchettava inesorabile. Verso nord festeggiamo ventimila chilometri e tre anni sulla strada, lontani da casa. La nostalgia accompagnava i passi, finalmente in silenzio, accettando il suo posto nella scelta di compiere il giro del mondo a piedi. Darwin fu un regalo a lungo aspettato, senza sorprese, come i premi che si ottengono dopo uno sforzo tanto intenso da avere sottratto loro persino il desiderio. Toccammo l’Oceano Indiano con mani, scarpe, ruote e piedi. Lo guardammo appiattirsi e fare spazio al cielo, mescolando gli azzurri in un orizzonte lontano. Avevamo attraversato il deserto australiano. E dopo sei mesi e seimila chilometri, il cammino in Australia ebbe fine.