Prima salita e discesa con gli sci di una cima inviolata in Pakistan per Enrico Mosetti

Prima salita e discesa con gli sci di una cima inviolata in Pakistan per Enrico Mosetti

Prima salita e discesa con gli sci di una cima inviolata in Pakistan per Enrico Mosetti
È tutta all’insegna della leggerezza e dell’avventura l’ultima spedizione di Enrico Mosetti, guida alpina, grande esperto di sci ripido e Ambassador Ferrino, che, nelle scorse settimane, insieme agli amici Giovanni Zaccaria e Davide Limongi, ha realizzato la prima salita e prima discesa di una cima inviolata in Pakistan.

A pochi giorni dal suo rientro in Italia abbiamo contattato il Mose per saperne di più su questa bella realizzazione.

 

Enrico, come è nata questa spedizione?

In realtà l’idea girava nella mia testa già da qualche tempo. Avevo visto la parete alcuni anni fa, navigando su Instagram, nel profilo di un fotografo pakistano. La linea mi aveva subito affascinato e, nei giorni successivi, facendo un po’ di ricerche su Google Earth e FatMap, riuscii ad individuare la sua posizione nella zona del Passu Glacier. Poi sono arrivati Covid e il lockdown e quella montagna è rimasta lì nel cassetto dei sogni… Nei primi mesi di quest’anno ho ricominciato a pensarci e, attraverso i contatti con l’agenzia che mi aveva seguito nel precedente viaggio in Pakistan, sono riuscito a sapere che si trattava di una montagna di circa 5500 metri, che non era ancora stata scesa con gli sci e, quasi sicuramente, neppure salita!

 

Quindi ti sei messo subito in contatto con gli amici per organizzare la spedizione?

In realtà in un primo tempo avevo pensato di andare da solo. Poi ho avuto occasione di parlarne con Giovanni Zaccaria, anche lui guida alpina e tecnico del soccorso alpino, con il quale, pur non avendo mai sciato, avevo condiviso un po’ di esperienze alpinistiche. Lui si è subito dimostrato entusiasta rispetto al progetto e, poco dopo, si è unito anche Davide Limongi, mio compaesano e compagno fidato di tante avventure sigli sci. Abbiamo organizzato tutto in fretta e furia, perché avevamo i giorni contati: Giovanni doveva rientrare il Italia tassativamente entro il 19 maggio per un matrimonio, e Davide, essendo un membro della Guardia di Finanza ha dovuto attendere di avere dai suoi superiori tutti i permessi per poter partire; quindi siamo riusciti a prendere l’aereo solo il 25 di aprile…

 

Un tempo decisamente breve per un progetto così esplorativo e pieno di incognite!

Già, ma per fortuna tutto è andato per il meglio! Le condizioni meteorologiche sono state ottimali e in breve siamo riusciti a raggiungere la nostra montagna e ad essere subito pronti per la salita, visto che la quota non elevatissima ci ha evitato di dover dedicare del tempo all’acclimatamento. Una volta sistemato il campo base abbiamo effettuato la salita in un’unica tirata, senza dover installare campi intermedi, e tutti e tre abbiamo raggiunto la cima.

 

Hai definito questa salita e questa discesa come la realizzazione del sogno che insegui da tanto tempo. Cosa l’ha resa così speciale rispetto ad altre esperienze che hai vissuto sulle montagne extraeuropee?

È stato un insieme di cose. Prima di tutto il fatto di essere la prima uscita dalle Alpi dopo il Covid. Poi il fatto di sentirla così “mia” quella montagna misteriosa che avevo scorto per caso sul web e avevo inseguito per così tanto tempo sulle mappe… Inoltre perché, con buona probabilità, si tratta di una prima salita assoluta e di sicuro di una prima discesa. È un po’ la realizzazione del mio ideale di avventura. Io mi considero più uno sciatore che un alpinista, ma ciò che mi affascina di più è proprio sciare su montagne mai discese, meglio ancora se anche mai salite! In spedizione vado alla ricerca della fusione perfetta di questi due aspetti: quello dell'alpinismo un po' più tecnico e ingaggioso e quello dello sci esplorativo.

 

Avete anche dato un nome a questa montagna, dedicandola a Leonardo Comelli…

Questo è stato un altro aspetto importante dell’esperienza che abbiamo vissuto: ero lì con due grandi amici, riuniti tutti e tre su una cima inviolata nel ricordo di Leo, il compagno con cui ho nutrito e fatto crescere il mio amore per le montagne e lo sci, che purtroppo è mancato nel 2016, a causa di una caduta fatale mentre assieme a me tentava la prima discesa del Laila Peak. Sia io che lui non abbiamo mai guardato con simpatia alle varie targhe alla memoria disseminate fra le montagne, ma quando siamo stati lassù ci è venuto spontaneo battezzare la cima appena raggiunta con il nome di “Romboss”, il nomignolo affettivo con cui Leo era chiamato da tutti i suoi amici.

 

Dopo questa bella realizzazione la vostra spedizione non si è fermata…

Già, le cose erano andate meglio del previsto e avevamo ancora un po’ di giorni a disposizione. Non era possibile trovare altre montagne da salire così velocemente nella zona dove eravamo, quindi abbiamo deciso di spostarci nell’area del Laila Peak, fra le stesse valli che avevo visitato anni prima assieme a Leo… Abbiamo individuato un’altra bella cima di 6447 metri, solo che questa volta ho combinato un casino! Prima di salire verso il campo base siamo stati un paio di giorni a Skardu e, arrivati sotto la montagna, mi sono accorto che avevo dimenticato laggiù i miei calzini riscaldati… Purtroppo, dopo il congelamento subito nel 2007 durante un invernale sulle Alpi Giulie, i miei piedi sono rimasti molto sensibili al freddo e devo proteggerli utilizzando quel tipo di attrezzatura. Per farla breve, dopo la notte trascorsa sulla montagna al campo intermedio, con temperature che sono scese fino a -38 gradi, siamo partiti per raggiungere la vetta, ma, attorno alle 6,30, ho capito che i miei piedi non andavano affatto bene e ho deciso di rientrare per non rischiare un nuovo congelamento. Giovanni e Davide invece sono andati avanti, ma dopo un po’ quest’ultimo, probabilmente demotivato anche dalla mia rinuncia, ha deciso di fare dietrofront. Giovanni invece era in gran forma e ha proseguito da solo, arrivando fino in vetta e completando la discesa con gli sci: una bella dimostrazione di testa, tenacia e bravura!

 

Poco fa parlavi di una delle tue salite sulle Alpi Giulie. Quanto ha influito sul tuo modo di vivere la montagna il fatto di essere cresciuto come alpinista e sciatore fra montagne così selvagge?

Penso che abbia avuto un ruolo importante. Le Giulie sono sempre state considerate un po’ la periferia delle Alpi e, per anni, soprattutto quando ero più giovane, ho sentito questa cosa come un limite. Spesso ho sognato di trasferirmi almeno per qualche tempo in luoghi più famosi, quelli dove ci sono le montagne più note e blasonate. Pian pianino però mi sono accorto che forse quella di essere nato e cresciuto nelle Giulie è stata una fortuna. Come sciatore ho potuto confrontarmi con un ambiente che ti forma e ti insegna moltissimo, perché lì le condizioni la fanno da padrone: nevica sempre tanto, però raramente sciamo neve bella e dietro qualsiasi gita, anche una medio facile, c'è sempre qualcosa di un po’ complesso e impegnativo, per la lunghezza, oppure per l’ambiente selvaggio o le condizioni meteorologiche. Alpinisticamente poi le Giulie sono ancora più ingaggiose, perché d’estate, se vuoi scalare lì, devi imparare a confrontarti con roccia quasi sempre mediocre e d’inverno sono una palestra straordinaria per le salite su misto, offrendo un terreno di avventura estremamente allenante, in grado di regalare grandi soddisfazioni.

 

Al tuo fianco, in quest’ultima spedizione, come in tante precedenti, avevi le attrezzature tecniche di Ferrino. Come si sono comportate?

Molto bene direi! Con noi avevamo due tende. Una era la Piler 3, che mi accompagna già da un po’ di anni e che abbiamo montato al campo base. Per me è stata l’ennesima conferma del fatto che si tratta di una tenda super valida per questo tipo di utilizzo, anche su neve e anche a temperature piuttosto basse. L’altra tendina era la nuova Blizzard 2. L’abbiamo usata un solo giorno sulla seconda montagna, testandola al limite delle sue capacità e forse anche un po’ oltre. Infatti eravamo in tre in una tenda da due... a meno 38 gradi! Un test estremo, ma superato in modo egregio! Poi avevo con me il sacco a pelo Lightec 1200, che non è un prodotto pensato per le temperature più rigide. Nonostante ciò, ha fatto molto bene il suo lavoro e al campo base mi ha consentito di fare delle belle dormite! Nota di merito anche per lo zaino Instinct 30+5... forse un po’ piccolo in certe fasi di trasporto dei materiali sulla montagna, ma questa è colpa mia: Ferrino ne produce anche uno con litraggio superiore, ma a me gli zaini grandi stanno troppo antipatici! È sicuramente un’attrezzatura da trattare con un po’ di attenzione quando si maneggia con le lamine degli sci, ma in fase di salita è perfetto ed è davvero, davvero comodo anche in discesa!