Andrea Lanfri racconta la sua ascensione al Denali

Andrea Lanfri racconta la sua ascensione al Denali

Andrea Lanfri - Denali

Lo scorso 26 maggio l’atleta e alpinista paralimpico Andrea Lanfri, ambassador di Ferrino, ha raggiunto assieme al compagno guida alpina Luca Montanari la vetta di 6190 metri del Denali, in Alaska, salendo lungo la classica via dello sperone Ovest.

Per Lanfri si è trattato di un passo decisivo verso la realizzazione del suo grande sogno: salire le Seven Summit, le cime più alte dei sette continenti. Con questa ascensione, dopo quelle del Monte Bianco, dell’Everest, del Kilimangiaro e dell’Aconcagua, sono infatti solo due gli step ancora da affrontare per arrivare all’obiettivo. Al completamento della collezione mancano “soltanto” il monte Elbrus (nel Caucaso) e il Vinson, in Antartide.

Così lo stesso Andrea ci racconta la difficile ed entusiasmante esperienza sul Tetto del Nord America.

 


Andrea, dalle tue prime dichiarazioni sembra proprio che questa salita sia stata davvero dura per te e il tuo compagno di cordata. Rispetto all’Everest la giudichi più o meno impegnativa? Quali sono le caratteristiche di questa montagna e gli aspetti che vi hanno messo maggiormente alla prova?

Questa è una domanda che anche io e Luca ci siamo posti più volte. Secondo me sono due cose totalmente diverse. Lo immaginavo già prima di partire e ora, alla luce dell’esperienza fatta, lo posso confermare. A livello di impegno fisico il Denali è sicuramente la montagna più difficile che ho fatto fin ad ora nell’ambito del progetto Seven Summit, mentre l'Everest è stata la più impegnativa sul fronte della tenuta mentale. Questo perché la spedizione al Denali si è risolta in tre settimane concentrate a bomba, però comunque in un arco di tempo abbastanza limitato, mentre la scalata dell’Everest ci ha richiesto complessivamente due mesi e più. In un tempo così lungo è più complesso tenere alta la motivazione e, nel mio caso, gestire le problematiche legate ai monconi e alle protesi, cercando di tenere sotto controllo lividi, infiammazioni, bolle e tagli. Al Denali mi sono dovuto mettere alla prova con uno sforzo fisico, ma soprattutto alle protesi, che non ero sicuro di riuscire a sopportare. Uno dei momenti più duri, ad esempio è stato il rientro dopo aver fatto la cima, quando abbiamo affrontato, con 13 ore di cammino non stop, i 25 chilometri di ghiacciaio che separano il Campo 3 dal Campo Base, con uno zaino pesantissimo sulle spalle e le slitte al traino. È stata un’esperienza importante, che mi ha fatto capire tante cose di me, portandomi ad esplorare i limiti della mia resistenza fisica.

 


Al Denali, nonostante le difficoltà, le condizioni meteo avverse e i dubbi iniziali avete scelto di proseguire la vostra ascensione. Una decisione non facile in un ambiente così estremo e potenzialmente pericoloso. Cosa vi ha fatto propendere per andare avanti? Quanto ha contato il fatto di essere una cordata già abbondantemente rodata?

In questa spedizione sono partito sicuramente un po' stanco, anche un po’ in “down” per quanto riguarda la motivazione e, nonostante l’immensa fatica, sono tornato molto molto più carico!

Nei mesi precedenti mi ero preparato con grande scrupolo, adattando i miei allenamenti al tipo di impegno che sapevo avrei dovuto affrontare: avevo fatto tantissimi chilometri di corsa e in bici, mi ero preparato al traino della slitta trascinando i copertoni in salita. Insomma, avevo fatto un programma dettagliato per arrivare al meglio all’appuntamento.

Una settimana prima della partenza però ho cominciato a stare male e, per un giorno e mezzo ho avuto la febbre a 40. Questo ha scombussolato tutti i miei piani, perché non mi ha consentito di concludere la preparazione come volevo, ma, soprattutto, questa strana influenza, anche una volta passata la febbre, mi ha lasciato per giorni un senso di debolezza. Al momento della partenza dall’Italia stavo di nuovo bene, poi, arrivati in Alaska, ecco tornare la nausea e la debolezza. Il primo giorno di cammino verso la montagna è stato abbastanza tosto e, sapendo quello che mi aspettava, ho cominciato ad avere tanti dubbi sulla possibilità di farcela. Però con Luca ci siamo detti: “Dai, teniamo duro e vediamo alla giornata…”. Per fortuna, salendo, ho cominciato a sentirmi sempre meglio, forse perché, come dico io, sono entrato in “modalità montagna”, o forse perché i diversi impegni – installare le tende, preparare le slitte e gli zaini, ecc – hanno fatto passare in secondo piano le sensazioni negative. Fatto sta che, una volta in quota, ho cominciato a carburare ed entrambi eravamo veramente motivati e carichi. Poi però è arrivato il brutto tempo a metterci i bastoni fra le ruote, ma, ancora una volta, abbiamo trovato l’approccio giusto, mantenendo la concentrazione senza lasciarci scoraggiare, in attesa dell’occasione giusta per tentare la cima, che alla fine è arrivata.

Penso che il merito del risultato raggiunto derivi tanto dall’intesa che mi lega a Luca. In realtà non siamo una cordata particolarmente rodata, perché insieme abbiamo fatto “solo” tre spedizioni, ma siamo entrambi persone positive che, se si presenta un problema, non si lamentano né si lasciano scoraggiare, ma piuttosto restano lucide e concentrate, cercando soluzioni e alternative. Soprattutto, poi sappiamo goderci l’esperienza, i luoghi fantastici dove siamo e l’avventura che abbiamo il privilegio di vivere.


 

Fino alla metà dello scorso secolo le grandi montagne dell’Alaska erano un ambiente forse ancora più selvaggio di quello dell’Himalaya e del Karakorum. In base alla tua esperienza oggi è ancora così? Come hai vissuto l’incontro con il mondo del Grande Nord, anche rispetto al mito di questi luoghi, di cui probabilmente anche tu ti sei nutrito, leggendo le avventure degli esploratori e dei primi alpinisti?

Prima di partire mi ero documentato molto sulle montagne dell’Alaska e sul Denali, leggendo libri e guardando video. Però, fino a quando non sei lì, è difficile capire cosa significhi davvero fare una spedizione in un ambiente di quel genere. È un contesto grandioso, anche se totalmente diverso da quello dell’Himalaya, dove gli scalatori si possono avvalere dal grande lavoro degli sherpa che sicuramente semplifica tante cose.

Certo il Denali è una montagna famosa quasi quanto l’Everest; quindi anche qui ci sono tanti alpinisti che tentano la vetta, anzi devo dire che durante la discesa, nel tratto dove ci sono le corde fisse, abbiamo dovuto rimanere in coda, intruppati dietro a tantissime altre persone, cosa che invece all’Everest non mi era capitata. Resta però il fatto che il Denali non è proprio una montagna per tutti: richiede una notevole abilità di organizzazione logistica in autonomia e un’enorme capacità di sopportare la fatica. Insomma, è un posto dove incontri solo alpinisti con una certa esperienza, mentre in Himalaya, forse proprio a causa del supporto degli sherpa che a volte rende le cose fin troppo semplici, mi è capitato di vedere gente che guardi e dici “Boh, avrà già messo i ramponi almeno una volta in vita sua?”.

Per andare a fare una montagna come il Denali devi essere davvero convinto e motivato, altrimenti scuse per abbandonare, per tornare indietro, ce ne sono davvero tante! Penso alla prima notte al campo base: eravamo solo a duemila metri e il mio termometro segnava otto gradi sotto lo zero! Ho detto: “Cavolo, meno otto a duemila metri e c’è da arrivare fino a 6200…”.

Fa davvero un freddo cane su quella montagna. Di notte, soprattutto nei giorni di brutto tempo e con il vento, la temperatura scendeva a picco: prima di infilarmi nel sacco a pelo mi toglievo le protesi e la mattina le trovavo completamente bianche, ricoperte di brina!

Per la prima volta, anche in previsione della futura spedizione al Mount Vinson in Antartide, ho portato con me il sacco a pelo Revolution di Ferrino, quello da -45 gradi, ed è stata una scelta azzeccatissima.


 

Mancano solo due tappe al completamento delle tue Seven Summit, e le cime più elevate le hai già “messe nel sacco”. Si può dire che ormai la strada è in discesa?

Nel percorso verso il completamento delle Seven Summit il Denali era sicuramente la montagna che mi preoccupava di più per il meteo, la logistica e la fatica. Anche questa tappa è andata, quindi potrei dire che sì, ora la strada è in discesa dal punto di vista delle difficoltà alpinistiche. Però ci sono altre questioni di cui tenere conto. Il prossimo anno, sicuramente, troverò il modo di fare l'Elbrus anche se la situazione di instabilità politica in quell’area potrebbe complicare le cose. Penso che quella sarà una spedizione veloce, da risolvere in pochi giorni, e cercherò di salirlo con la mia ragazza o con qualche amico. Poi sarà la volta del Monte Vinson. L’obiettivo è di riuscire ad andarci a fine 2025 o nel 2026, ma lì il grande ostacolo è sicuramente quello economico: una spedizione in Antartide richiede cifre davvero importanti e bisognerà trovare il modo per ridurre il più possibile i costi.


 

Spesso, nel dare notizia delle tue salite, i media si soffermano sull’aspetto del record rispetto alla tua condizione di pluriamputato. Come vivi questo tipo di attenzione? È uno sguardo che coglie il senso che la passione per la montagna e lo sport ha per te?

Quando vado in montagna, quando arrampico, quando faccio spedizioni, difficilmente le persone che sono là e non mi conoscono si accorgono che ho le protesi. Questo perché quello che faccio lì, lo faccio in modo molto naturale.

Dopo la malattia, quando ho ripreso ad andare in montagna, ho cercato di farlo non come una forzatura, ma come un’esperienza in cui mi muovo con la giusta armonia, il giusto feeling. Non è stato subito così. All'inizio quello che provavo non mi piaceva, perché mi sembrava di cercare soluzioni per fare forzatamente quello che facevo prima e che ora, dopo le amputazioni, non potevo più fare.

Un po’ alla volta questa sensazione è scomparsa: ho trovato il mio stile, ho imparato a conoscere le nuove caratteristiche del mio corpo e a sfruttarle per fare le cose che volevo in modo armonico e naturale. Quindi ora, quando sono in montagna, anche agli occhi di chi mi vede do l'impressione di essere un alpinista “normale”. Se non ho le protesi in vista, nessuno si accorge del “trucco”.

Alcune riviste e giornalisti, quando raccontano delle mie salite, mettono l’enfasi sul fatto che sono uno scalatore pluriamputato, ma a me non piace spingere più di tanto su questo aspetto. Le protesi per me sono strumenti che mi consentono di raggiungere gli obiettivi che mi sono posto, continuando a fare le cose che amo con naturalezza. Questo è il senso del mio andare in montagna e penso che diffondere un messaggio di “normalità” sia la cosa più importante che posso trasmettere agli altri.