Argentina on the road, con Pieroad

Argentina on the road, con Pieroad

Ho i nervi a pezzi. Dietro di me, una passerella per pecore corre da un lato all’altro del fiume Carreras, cento metri di fiato sospeso che ho dovuto passare cinque volte per trasportare Ezio e l’equipaggiamento da una sponda all’altra. Ora mi trovo in una pietraia appena dopo il ponte, sfinito, e non c’è alcun indizio sul sentiero da seguire. Nelle ultime sei ore ho percorso appena sette chilometri e la notte sta scendendo sulla terra di nessuno impedendomi di andare avanti. Le nubi si condensano all’orizzonte, avverto il ticchettio delle prime gocce d’acqua gelide colpire la giacca. Sebbene sia esausto, devo montare il campo prima che il temporale arrivi. Scelgo con occhio clinico il rettangolo più pianeggiante, faccio largo tra i sassi, stendo un telo di plastica nero per isolarmi dal terreno e infine monto la casa che mi ha protetto da vento e pioggia negli ultimi ottomila chilometri: la tenda Manaslu 2 della Ferrino è l’ancora di salvezza arancione nella quale anche stanotte troverò rifugio.

 

Sto attraversando il confine tra Cile e Argentina all’altezza del Passo Mayer. Una volta conclusa la Carretera Austral, contavo di uscire dal paese tramite il Passo Candelario Mancilla, ma nonostante siamo a novembre 2022 la frontiera è ancora chiusa dai tempi del covid - maledetti ritardi della burocrazia… L’unica alternativa papabile, considerando i tempi del visto e l’impegno di completare il percorso a piedi, era dirigersi a nord, al famigerato Passo Mayer. Tra i posti di controllo cileno e argentino corrono appena quindici chilometri, tuttavia il sentiero è disgustosamente accidentato. Guadi di fiume, paludi, recinzioni di bestiame da sorpassare, la pista di terra che scompare ripetutamente tra i rovi, a posteriori si è orgogliosi di chiamarla “avventura” ma quando si è lì a maledire la pigrizia dei soldati di frontiera l’unico aggettivo che viene in mente per descriverla è: FOLLE.

 

Monto la tenda in pochi minuti con l’esperienza consumata da centinaia di campeggi. Catino - arco frontale - arco a forcella - telo impermeabile - picchetti - falde antivento girando in senso antiorario, tiranti, prese d’aria anti condensa davanti e dietro. Apro la cerniera che sigilla l’entrata e continuo la sequenza, potrei farlo a occhi chiusi. Stendo il materassino a destra, svito la valvola di gonfiaggio e ascolto il sibilo familiare indicare che l’aria sta entrando nel mio letto portatile - il materassino autogonfiante è una chicca. Sacco a pelo di lato, a seguire giaccone/cuscino, zainetto con gli elementi di tecnologia e l’unico cambio di vestiti che porto con me, schisca per la cena e per la colazione, acqua, spazzolino e dentifricio. Dovrei fare stretching però questa volta sono ai minimi termini. Mi siedo nella tenda e pulisco le ferite sui polpacci con delle salviette igienizzanti, i cespugli di rovi attraversati durante la giornata hanno disegnato un arabesco rosso scuro sulla pelle. Mancano otto chilometri al controllo di frontiera argentino, penso mentre crollo sul materassino. Se continua così, ci arriverò tra altri due giorni e le provviste che avevo calcolato subiranno una grossa sforbiciata, abbastanza da doverle ripensare per le settimane successive. Imposto la sveglia alle cinque, l’estate boreale si avvicina e le giornate si fanno lunghe, con 15-16 ore di luce. Riuscirò ad arrivare in Argentina?

 

L’indomani mattina la sveglia mi trova già pronto. Succede sempre quando sento che la giornata sarà impegnativa. Ezio e io partiamo ben prima delle sei, scartando macigni e fossi per le prime ore di cammino. Il guado di un paio di fiumi poco profondi mi sveglia completamente, l’acqua è ghiacciata, siamo tra le Ande; tuttavia, il percorso è decisamente migliorato rispetto a ieri, riusciamo a procedere spediti e alle dieci tiriamo un sospiro di sollievo. Abbiamo raggiunto la guardiola dei gendarmi! Il certificato di vaccinazione non viene richiesto, gli passo solo il passaporto, “Cuanto te quedas?” “No se, un par de meses a lo maximo” “Dale”, l’ufficiale schiaffa la mano sul timbro e io alzo le mani al cielo. È ufficiale, siamo in Argentina!

 

Sono passati due giorni da quando ho lasciato Villa O’Higgins, ultimo avamposto della Carretera Austral, per dirigermi a Chaltén. Dovrò coprire una deviazione di 500km che costerà due settimane di cammino. Lo scopo? Visitare i sentieri della “Capitale nazionale del trekking” in Argentina. Visto che sto facendo il giro del mondo a piedi, mi pare sensato allungare il percorso per aggiungere chilometri extra! Eccomi dunque nella famigerata Pampa, terra battuta da venti incessanti che raggiungono i cento chilometri orari. Poco cresce in queste lande desolate: arbusti bassi, erba dalle radici resistenti, qualche albero lungo i fiumi che scendono dalla Cordigliera. Ocra e grigio sono i colori predominanti, indizi della siccità. Eppure, anche in questo ambiente ostile, centinaia di viaggiatori si lanciano ogni anno lungo le gigantesche distanze che separano i piccoli centri abitati della Patagonia, pedalando e guidando alla ricerca di panorami suggestivi ed esperienze da raccontare. Così come in Cile la Carretera Austral è la pagina sulla quale scrivere le proprie avventure, in Argentina il libro da popolare è la Ruta Nacional 40, una strada di cinquemila chilometri che corre da nord a sud del paese e che viene affettuosamente chiamata la 40.

 

E quasi fossero state lì ad aspettare, ecco che appena metto piede sull’asfalto della 40 una coppia di ragazze tedesche in sella alla bici mi si fa incontro. È il quinto giorno da O’Higgins e sono senza connessione, dunque dopo il saluto caloroso chiedo informazioni sul meteo. Da questo lato della Patagonia la pioggia interesssa poco: quando soffia il vento? In che direzione? Sembra che per i prossimi due giorni dorma, dal terzo comincia a urlare in direzione ostinata e contraria fino a quando il meteo dà visibilità. Faccio un calcolo rapido, posso raggiungere l’incrocio con la provinciale 29 e tagliare 70km prima che il vento inizi. In questo modo, se fosse troppo intenso per proseguire, avrei comunque un cuscinetto di 70km/due giorni sulle provviste. Ma poi, ragiono a voce alta mentre le ragazze si allontanano, quanto vuoi che sia forte per bloccare una persona che spinge un passeggino da 50 kg? Di lì a due giorni, l’avrei scoperto.

 

Puntuale come la notte, Eolo si presenta il pomeriggio del giorno sette. Raffiche imponenti gonfiano il telo nero che copre Ezio e alzano turbini di polvere dal deserto che ci circonda. Il manto della provinciale 29 è sterrato, ho presa migliore sul terreno ma faccio più fatica a spingere Ezio, sta portando dieci litri di acqua per poter cucinare qualcosa di caldo da buttare nello stomaco. Sono calmo, stavo aspettando di vedere quanto forte fosse il vento e per il momento riesco ad andare avanti. Con fatica, certo, ma se continua così ce la posso fare nei tempi previsti e arrivare a Chaltén in due settimane. Sono a metà, sto andando bene. Continuo a ripeterlo per tutto il pomeriggio, facendomi forza con semplici calcoli che dimostrano come abbia percorso già la maggior parte della strada. Accampo nel mezzo del nulla, aspettando le pause tra una folata e l’altra per stendere la tenda e flettere la paleria per darle forma. Pianto tutti i picchetti, tiro tutti i tiranti e posiziono Ezio in modo da proteggere il campo. Anche così, il suono che producono gli scossoni fa rabbrividire: sembra che un gigante stia prendendo a pugni il telo esterno facendo vibrare e sobbalzare tutto. Restano ancora sette notti per arrivare a destinazione e se la struttura cedesse dovrei passarle all’addiaccio. Sarebbe impossibile dormire con questo vento, non riesco a figurarmi come diavolo potrei fare per giungere alla meta. Ma la Manaslu sa il fatto suo, è flessibile e asseconda il vento senza spezzarsi. Dormo poco per i boati che si sprigionano a ogni colpo, però riesco a ricaricare le energie. All’alba c’è silenzio, il vento è rimasto in piedi tutta la notte e ora riposa. Meglio approfittarne e percorrere il grosso della tappa finché non c’è.

 

Le giornate continuano tra alti e bassi. Una volta Eolo mi costringe alla resa, soffia talmente forte da impedirmi di proseguire. Dunque è vero, il vento può fermare un ragazzo che spinge un passeggino da 50kg. Trovo rifugio sotto a una grata che taglia la strada, aspetto che le folate diminuiscano per piantare la tenda ed è solo al tramonto che riesco a piazzarla. Tra qualche giorno arriverò a Chaltén, devo solo tenere duro e camminare con il vento che ulula nelle orecchie. Rimango stupito dall’intensità delle correnti d’aria: per giorni e giorni spirano incessantemente, senza alcuna tregua. Di notte spezzano il sonno e di giorno abbassano la temperatura tanto da farmi indossare guanti e passamontagna di lana. La polvere irrita gli occhi e finisce nel cibo, ogni movimento è fatto con cautela e persino - naturale, ma bisogna farci caso - persino pisciare diventa un gioco di equilibri. Nonostante le condizioni spossanti, il deserto della Pampa è un luogo perfetto per pensare. Una volta assimilato il grido del vento e i suoi schiaffi, non esistono distrazioni: con tatto, vista e udito sopraffatti dall’aria, la mente si rivolge dentro di sé e sonda le profondità dell’animo in un cammino più lungo del mondo. Che cos’è la noia quando ogni minuto è dedicato a un pensiero diverso? Questo è il tesoro della solitudine: se stessi.

 

Giungo a Chaltén quasi con malinconia, al termine del quattordicesimo giorno. Sono fisicamente sfinito ma in testa e nell’animo c’è pace. Chissà, forse qualche altro giorno mi avrebbe fatto bene… Monto la tenda in un camping e passo i primi due giorni ad assorbire energia dal cibo. Mangiare è una delle parti più appaganti di un viaggio come questo perchè posso ingurgitare quantità di panini burro e dulce de leche senza ritegno! Mentre ristabilisco le riserve di grassi, raccolgo informazioni sul pueblo. Chaltén gode di uno skyline famosissimo nell’ambiente dell’alpinismo, formato da montagne di granito inconfondibili: Fitzroy, Poincenot e Cerro Torre sono alcuni dei nomi più evocativi per chi ama la montagna. Ci sono diversi sentieri che portano a esplorarne le guglie affilate e i ghiacciai stiracchiati sotto di esse. Quelli al Fitzroy e al Torre si possono fare in giornata, mentre alcuni più impegnativi richiedono un minimo di preparazione. Uno di questi è la Vuelta Huemul, un circuito in senso antiorario di quattro giorni attorno alla vetta che dà nome al trekking, il monte Huemul. Il percorso è semplicemente stupefacente: per la prima volta cammino sopra a un ghiacciaio, accampo in una baia piena zeppa di iceberg e, come se non bastasse, getto lo sguardo sopra ai leggendari Campos de Hielo, un’immensa distesa di ghiaccio dalla natura impenetrabile. I Campos esercitano su di me il fascino evocativo dell’incontaminato perchè solo una spedizione è riuscita ad attraversarli in totale autonomia. Una sola, in tutta la storia, intesi? In Antartidece ne saranno srate almeno una quindicina, per non parlare del Polo Nord. Le condizoni meteo durissime e la morfologia largamente sconosciuta ne fanno uno degli ultimi luoghi intatti rimasti al mondo. Nessuna base scientifica, nè tantomeno il turismo, sono riusciti a scalfire la sua pace. È un’emozione indescrivibile avvicinarsi a loro e percepire la potenza dei suoi cinquanta ghiacciai saldati da migliaia di anni di isolamento. Sono anche gli ultimi giorni in cui campeggio con la Manaslu, mi sembra un degno saluto per la tenda con la quale ho attraversato Perù, Cile, deserto di Atacama, Carretera Austral, e percorso trekking tra antiche rovine Inca e meravigliose Cordigliere innevate, su fino a 5000 metri. Assieme al Team Ferrino abbiamo deciso di lasciarla riposare e sostituirla con una “giovincella”, la matricola nell’assortimento di tende 4 stagioni: la Namika 2. Come farla arrivare fino all’Argentina? Non ci crederete ma a portarmela arriva addirittura… Mio padre! In realtà avevamo deciso mesi addietro che avrebbe percorso un pezzo di giro del mondo con me e fissato il tratto in Argentina, tra Chaltén e Calafate. Approfittando del suo arrivo, avrebbe portato la tenda nuova assieme a qualche altro pezzo di ricambio, sia per me che per Ezio: dopo 14.000km, il mio compagno aveva bisogno di un paio di copertoni nuovi.

 

E così, il tre dicembre 2022, alla stazione dei bus di Chaltén, riabbracciai mio padre. Arrivava da un viaggio di quasi tre giorni ma non era minimamente stanco. In famiglia lo chiamiamo l’uomo bionico per l’energia infinita di cui dispone e nei giorni seguenti diede subito prova della grinta che aveva portato da casa. A dirla tutta, le sue falcate mi lasciavano indietro la maggior parte del tempo e mi scoprivo a ridermela da solo trotterellando dietro alla sua sagoma per cercare di raggiungerlo. Dopo qualche giorno tra le montagne, riprendemmo la strada alla volta di El Calafate, il villaggio suggestivo. Il primo giorno dall’arrivederci a Chaltén cadde il mio compleanno. Avere papà a camminare con me era il regalo più bello che potessi sognare ma, ciliegina sulla torta, la sera brindammo in tenda con una grappa Dalla Vecchia, mi pare fosse un Prime Uve. Ci passammo il cordiale sorseggiandolo con pazienza, assaporando gli aromi di casa con la calma di chi riesce ad apprezzare le piccole cose in tutto il loro significato.

 

Percorremmo una ventina di chilometri al giorno per le prime quattro tappe, accampando lungo il margine della strada oppure in situazioni improvvisate. Una volta ricevemmo ospitalità in una Estancia, una delle storiche fattorie della Patagonia votate all’allevamento di ovini - pecore per la lana e agnelli per la carne. Romero, il nostro anfitrione, ci sistemò in un cubicolo con un letto e due materassi, mentre una stufa a legna dell’anteguerra funzionò da riscaldamento e cucina per uova sode, lenticchie e riso, base della nostra alimentazione. Con nostra sorpresa e meraviglia, Romero ci regalò anche una bottiglia di vino rosso - sono astemio, disse porgendocela. Papà e io ci guardammo con un sorriso furbo ma decidemmo di aprirla quando ci saremmo presi una pausa.

 

Di lì a tre giorni venne il momento di stapparla. Eravamo arrivati a un’altra Estancia, La Leona, che nel tempo era diventata anche Paradero - luogo di sosta e approvvigionamento dove era possibile anche pernottare. Dalle pareti ci guardavano solenni gli occhi degli scalatori che erano entrati nella leggenda dell’alpinismo per aver aperto le vie su FitzRoy e Cerro Torre. Lo sguardo di Casimiro Ferrari e i Ragni di Lecco ci fissavano dal 1974, anno in cuì per primi posarono bandiera sulla cima del Torre. Dopo i primi giorni di rodaggio, era tempo per l’uomo bionico di scatenarsi. Avevamo percorso metà del cammino e ci restavano altri 110km per El Calafate, che stimavo avremo coperto in cinque giorni. Ce ne bastarono tre. Con mia grande sorpresa, il vento ci lasciò in pace e riuscimmo a macinare tappe da 34 e 37km. La Pampa offrì incontri fortuiti: con altre persone, come Oscar, manutentore della strada che ci invitò a casa sua a vedere una partita dell’Argentina; e con decine di animali, dai guanacos che saltavano leggiadri le recinzioni del bestiame alle volpi del deserto e i condor.

 

Giungemmo dunque a El Calafate dopo nove giorni di cammino; avevamo coperto 213km. Mi stupiva la facilità con cui papà aveva dormito in tenda, a me ci erano volute settimane per abituarmici! Era bello osservare il campo e vederlo accucciato dentro alla mia casa storica. Quella nuova, la Namika, aveva una silhouette più longilinea e la paleria più robusta, a giudicare dal peso dei tubi precollegati. Falde sollevate da terra garantivano un ricircolo dell’aria ottimale, dunque la condensa era limitata al massimo - a oggi, dopo le prime venti notti, non ho mai trovato una goccia di umidità al risveglio. Il montaggio avveniva direttamente infilando i sostegni sul telo impermeabile, senza dunque installarlo a posteriori sul catino, già assicurato alla parete esterna tramite degli occhielli. Oltre a essere funzionale mi pareva anche… Bella! Non so spiegarlo, ma forse dopo tanto tempo passato a dormire sotto le stelle la mia casa portatile doveva avere anche un bell’aspetto, e questa faceva veramente brillare gli occhi.

 

Ci fermammo a Calafate qualche giorno e prima che papà ripartisse andammo a vedere il Perito Moreno, uno dei ghiacciai che formano i Campos de Hielo. Il Perito è forse il più famoso e sicuramente il più fotogenico: dalle passerelle panoramiche che vi si allungano di fronte, è possibile fotografarlo da tutte le angolazioni, cogliendo le sfumature azzurre del ghiaccio e le pareti alte fino a 70 metri. A buon diritto, il sito è iscritto nella lista Unesco dei Patrimoni dell’Umanità. L’indomani fu il momento dei saluti. Io mi sarei trattenuto ancora un giorno, il tempo necessario per fare la spesa e cucinare il cibo per la marcia successiva. In sette giorni avrei coperto quasi 300km e sarei tornato ancora una volta in Cile per l’ultimo pezzo del giro del mondo a piedi in America. Direzione? La Fine del Mondo.