Pieroad – a piedi verso “la fine del mondo”, sulla Carretera Austral

Pieroad – a piedi verso “la fine del mondo”, sulla Carretera Austral

Pieroad - Carretera Austral

Abbiamo incontrato Nicolò Guarrera ed Ezio, il suo fedele compagno-bagaglio, alla fine della Patagonia, dopo migliaia di km percorsi a piedi sulla Carretera Austral. Un viaggio iniziato anni fa con un paio di ambizioni niente male: la prima, su tutti, consiste nel fare un giro del mondo camminando; la seconda, aggiunge la lentezza necessaria al viaggio, per potersi godere il senso di tanta strada.

Lasciamoci trasportare in questo angolo immenso di America del Sud dal diario di viaggio di Pieroad.

 

 

La Patagonia: tra immaginazione e confini reali

Cosa immaginate se vi dico Patagonia? Scavate nella memoria, unite i frammenti di sentito dire con i fotogrammi colorati di trasmissioni d’avventura perdute nel tempo. Che cosa trovate? Dove siete stati catapultati?

 

Il mondo è rotondo però se lo stendiamo su una mappa, Europa al centro, sembra abbia due angoli. L’Australia, quindicimila chilometri dall’Italia in fondo a destra, e la punta dell’America Latina dal lato opposto, un’appendice di terra protesa verso sud a sfiorare l’Antartide: Patagonia. Due metà le danno forma, Argentina a est, accovacciata sulle spiagge dell’Oceano Atlantico, e Cile disteso alle sue spalle, schiena contro schiena, guardando al Pacifico e all’ultimo tramonto del giorno.

 

Ci sono due strade che la attraversano, piste leggendarie con il potere di far luccicare gli occhi per il sentimento di libertà che riescono a evocare. Sul territorio argentino corre la Ruta 40, spina dorsale del paese che unisce il confine con la Bolivia alla Tierra del Fuego. In Cile, meno conosciuta, la Ruta 7 si snoda per 1247 km da Puerto Montt a Villa O’Higgins, allineando microscopici pueblos tanto isolati che pare il tempo si sia fermato lì a sorseggiare un mate fumante. I Cileni la chiamano Carretera Austral: la strada verso la fine del mondo.

 

Centinaia di viaggiatori la percorrono ogni anno in moto o bicicletta, qualcuno facendo autostsop, altri ancora noleggiando un’auto. Pochi, forse nessuno, l’hanno vissuta nel modo più lento e umano di spostarsi: camminando. Quest’anno almeno pare proprio siamo gli unici, Ezio ed io, un italiano e il suo passeggino impegnati in un giro del mondo a piedi. Un sogno da 30.000km e cinque anni che a metà del suo percorso ci ha portati proprio qui, alle porte della Carretera Austral, indirizzati dai consigli appassionati di decine di persone.

 

Ma cosa rende la Patagonia cilena cosi speciale? È un posto isolato, dove la connessione con la Natura e le persone è più forte di quella a internet. In una superficie poco più piccola dell’Italia, diciassette Parchi Nazionali proteggono undici milioni di ettari di terra, tutelando decine di ecosistemi completamente diversi tra di loro e unici al mondo. Boschi e foreste patagonici albergano una gigantesca biodiversità e catturano tre volte più anidride carbonica rispetto alla Foresta Amazzonica. Le Ande si inabissano nell’Oceano creando un misterioso labirinto di fiordi e ghiacciai inesplorati danno vita a cascate, laghi e fiumi dai colori irreali. Due piccole Antartidi sorgono tra terra e mare: i Campi di Gelo, i ghiacciai più estesi della Terra, grandi quanto il Molise e la Sardegna. E questo è solo l’inizio.

 

 

Tre mesi per raggiungere la fine del mondo: il cammino

Chiudo le pagine del Passaporto dei Parchi Nazionali e smetto per un secondo di sognare a occhi aperti. Il libricinio dalla copertina rosso scuro raccoglie queste e altre informazioni sulla strada che mi accingo a percorrere. L’ho sfogliato prima di partire, mi piace studiare il percorso prima di avventurarmici; ma adesso è ora di andare. Mi trovo a Puerto Montt, sopra alla targhetta che segna il km zero della Carretera Austral. Ho tre mesi per percorrerla, il tempo di esaurire il visto cileno. Direzione? Il pueblo di Villa O’Higgins, settecento anime tra montagne innevate e laghi alla frontiera con l’Argentina. Si cammina verso sud.

 

Lasciata la città, cominciano a comparire i primi Parchi Nazionali della Carretera Austral. Il Pumalin ha una storia stupefacente. Un imprenditore e naturalista statunitense, Mr. Douglas Tompkins, si innamorò della Patagonia negli anni ‘90 e dopo aver venduto le quote della società che aveva creato cominciò a comprare terreni tra Cile e Argentina. Lo scopo era quello di sottrarli allo sfruttamento indiscriminato: miniere, tagliaboschi e allevamento intensivo stavano distruggendo queste regioni. La gente del posto non si fidava e lo ostacolava con tutti i mezzi. Non capivano cosa ci fosse venuto a fare questo gringo, a comprare le loro terre per lasciarle li? A farci niente? Qualcosa non tornava. Il quadro divenne chiaro alcuni anni dopo, quando Tompkins unì le proprietà acquistate in diverse Riserve Naturali dando la possibiltà di visitarle a chi fosse interessato. Con la sua azione dimostrò che la Natura intatta non era solamente una risorsa da consumare, bensì un mondo da coltivare e condividere. E non è tutto.  A inizio anni 2000 Tompkins decise di donare tutto ciò che aveva comprato ad Argentina e Cile, secondo limiti di frontiera, dietro impegno da parte degli stati di creare dei Parchi Nazionali. Si trattò della donazione di terra privata più grande della storia, qualcosa dalle dimensioni della Sicilia, per intenderci.

 

Il Parco Nazionale Pumalin è uno dei pezzi dell’eredità e oggi conta campeggi e decine di sentieri di trekking. Ne ho percorsi diversi, il più suggestivo dei quali è l’ascesa al vulcano Chaitén. Dalla sua cima, esplosa in una devastante eruzione alcuni anni fa, si può abbracciare con lo sguardo tutta la larghezza della Patagonia, fino all’Oceano Pacifico. Il cratere sembra un dipinto di Dalì, un deserto di sabbia dal quale emergono tronchi neri dinoccolati, ciò che rimane dopo l’eruzione. Dentro al cratere la pioggia ha formato una laguna, in netto contrasto con i dintorni aridi e secchi.

 

Proseguendo verso sud, il panorama cambia. Questa è la regione con più precipitazioni di tutto il Cile, una vegetazione lussureggiante fa da sfondo a montagne solitarie dalle cime incappucciate di neve. Settembre è iniziato da poco e siamo ancora in inverno, sono giorni di pioggia. Sono ben equipaggiato, una giacca Valdez rosso fuoco mi protegge dall’acqua per diverse ore. Ha un che di pesante, dunque ripara anche dal freddo e dal vento, senza tuttavia creare una cappa di condensa. Sarebbe il colmo essere protetti dall’acqua di fuori e trovarsi bagnati per il sudore! Una tasca interna custodisce il telefono, lo porto sul corpo per contare i passi, il conteggio recita sedici milioni. La giacca fa il paio con dei pantaloni antipioggia, anch’essi belli traspiranti. L’unica nota dolente sono le scarpe. Il trade off è tra impermeabilità e calzata, potrei indossare degli scarponcini da trekking per evitare di bagnarmi i piedi ma così facendo sacrificherei l’ammortizzazione di una gomma morbida. Cammino quaranta chilometri al giorno sull’asfalto, la soluzione sarebbe un massacro per le articolazioni. Tiro un sospiro di rassegnazione. Almeno i piedi si possono asciugare.

 

Lascio la regione di Los Lagos per entrare nella successiva: Aysen. Il Cile è una lunghissima striscia di terra - 5000 km in linea d’aria tra gli estremi settentrionale e meridionale - ma è largo in media duecento chilometri. Le regioni si succedono da nord a sud, dunque sono state numerate per facilitarne l’ordine. Aysen è l’undicesima, dunque Los Lagos, da dove vengo, è la decima. In quest’ultima regione la Patagonia ha un nomignolo, “la Verde”, a causa delle precipitazioni costanti che innaffiano la terra ogni stagione dell’anno. Chiedo in giro se anche in Aysen la Patagonia abbia un epiteto, tuttavia la risposta è negativa. Toccherà a noi renderle giustizia e trovarle un soprannome.

 



Villaggi e incontri

I pueblos sono veramente minuscoli, nella maggior parte di essi vivono poche centinaia di persone. Uno di essi è Puyuhuapi, sulle sponde dell’omonimo fiordo. Il meteo chiama pioggia tutta la settimana, dunque decido di fermarmi per aspettare che le nuvole si scarichino. Prima di partire da casa, gli amici mi avevano convinto a documentare il giro del mondo a piedi sui social e una delle conseguenze, piacevole quanto inattesa, è che diverse persone mi contattano su Instagram per offrirmi ospitalità. È successo anche a Puyuhuapi, perciò sono diretto a casa di Javier e Magdalena. Sono passati due anni da quando sono partito ma fa ancora un po’ strano andare a bussare a casa di sconosciuti e piazzarmi sul loro divano per diversi giorni. Immagino che per loro sia lo stesso, però anche cosi l’accoglienza è calorosa e in men che non si dica facciamo amicizia. Decido subito di prenderli per la gola e la sera mi impossesso dei fornelli: gnocchi fatti a mano con ricetta della nonna. Se c’è qualcosa che ho imparato in questo viaggio, è che un Italiano in cucina è sempre una bella storia da raccontare. Imparate qualche ricetta casereccia e mettetevi in gioco: non immaginate quante porte vi si apriranno e le persone che potrete scoprire. I ragazzi sono simpaticissimi e abbattiamo le barriere della formalità nel giro di un paio di giorni. Capita che mentre sono da loro caschino le Fiestas Patrias, due giornate che celebrano l’indipendenza nazionale (18-19 settembre). Durante tutta la settimana ci sono sfilate, balli, e banchetti di ogni tipo, andiamo assieme alle celebrazioni che si tengono nel pueblo, dentro alla spaziosa palestra della scuola - il diluvio ha fermato me, non il pueblo.

 

Arriva il momento di andare avanti, come sempre. Dopo Puyuhuapi e un paio di villaggi ancora più piccoli viene Coyhaique, capitale regionale dove si concentra metà della popolazione di Aysen. Tuttavia, prima di giungervi, passo per un altro Parco Nazionale, il Queulat. Dentro di esso si trova il Ventisquero Colgante, una lingua di ghiaccio appesa a mezz’aria che origina dall’omonimo ghiacciaio. Anni fa arrivava a lambire la laguna color menta che si trova sotto di essa, ma a causa del riscaldamento globale negli ultimi anni è retrocessa di centinaia di metri. Proprio il giorno prima che arrivassi un’enorme massa glaciale si è staccata dal Ventisquero, frantumandosi in mille pezzi. Conoscere il destino triste di questo e di tutti gli altri ghiacciai del mondo dona loro una bellezza drammatica, fragile. Quante persone riusciranno ancora a visitarli? E come li vedranno se già ora sono mutilati, eroi di una guerra che non possono combattere nè vincere?

 

È con questi pensieri che giungo alla capitale regionale una settimana più tardi - tanto è il tempo che mi serve per coprire 250km. Coyhaique in lingua chonos, le genti originarie di qui, significa “tra i laghi”. Vi lascio indovinarne il motivo. Mi ci trattengo poco, un paio di giorni per riposare e fare spesa. Sarà l’ultima città che incontro per i prossimi due mesi: significa difficoltà di approvvigionamento, scarsità di frutta e verdura fresche e prezzi alti. Carico chili di quinoa, frutta secca e cibo disidratato, grazie a Ezio posso trasportare fino a 50kg - equipaggiamento compreso. Poi riparto, sudando a ogni salita per il carico che devo spingere.

 

Ai lati della Carretera Austral si aprono scorci mozzafiato e ogni volta che raggiungo un centro abitato vengo accolto a braccia aperte da qualcuno. Incrocio qualche viaggiatore in moto, pochissimi in bicicletta, l’estate non è ancora iniziata. Una pace immensa riempie i polmoni a ogni respiro e in certi momenti mi trovo ad ascoltare il vento con più attenzione, con lo sguardo perso nel vuoto. Questo posto echeggia di una musica che suona con lo stormire delle fronde e il cinguettio dei tozzi chucaos. L’armonia riporta alle dimensioni naturali delle cose: le montagne immense, l’uomo piccino, la forza impetuosa del fiume che abbevera i boschi.

 

Un giorno compio una deviazione verso la Laguna Leones, un gioiellino sconosciuto anche a gran parte della popolazione locale. Vi giungo dopo diverse ore di trekking, dopo aver campeggiato in un’ampia radura erbosa. L’assenza di persone permette di sentire una vibrazione solenne nell’aria. Dietro la laguna sorge infatti il mitico Campo di Gelo Nord, una landa che mai nessuno è riuscito ad attraversare. Un unico insediamento, situato sull’estremità settentrionale, alberga la guardia forestale del Ghiacciaio Exploradores, uno dei tanti che compone il Campo di Gelo. L’Antartide, in confronto, sembra quasi affollata. Sapere che nessuno è mai riuscito nell’impresa di percorrerlo tutto gli dona il fascino della meta invitta, a scorno della tenacia dell’uomo e della tecnologia. La Natura è ancora potente e qui lo si percepisce subito.

 

Le bellezze non hanno fine e si apprezzano anche negli incontri con le persone semplici. A Cochrane vengo ospitato da Raquela e ogni mattina ci troviamo a sorseggiare mate caldo davanti alla stufa a legna, cucina e riscaldamento di tutte le case della Patagonia. Il mate è un piccolo recipiente nel quale si beve un infuso dal sapore amaro, la yerba mate. Lo si riempie a metà con la yerba e dopo averlo inclinato si piazza la bombilla - una cannuccia di metallo - sotto la yerba in modo che non si sposti; infine si versa acqua calda. Quest’operazione è detta cebar e la compie la persona che prepara il mate, riempiendolo di acqua di volta in volta perchè il mate è piccolo e basta appena per tre o quattro sorsi.  Ogni volta che l’acqua finisce, il mate torna a lui, che versa e passa alla persona successiva, avanti finchè tutti non hanno bevuto. Una volta che tutti hanno bevuto il giro ricomincia e si continua finchè l’acqua non è finita. Chi è soddisfatto e non ne vuole più dice grazie; e salta il turno.

 

Villa O’Higgins

Da Cochrane iniziano gli ultimi 220km. Un traghetto a metà strada porta da una sponda all’altra del fiordo Mitchell, uno dei quattro che si incontrano lungo la Carretera Austral e per i quali è necessario imbarcarsi. Sta finendo ottobre e sto per arrivare a Villa O’Higgins, l’ultimo pueblo della Ruta 7. È un villaggio isolato, a oltre cento chilometri dal centro abitato più vicino. Lo circondano alte montagne, confine naturale con l’Argentina; e lunghe lagune dai colori spettacolari. Per due mesi la Patagonia mi ha riempito gli occhi con le sue meraviglie ma ancora una volta decide di lasciarmi a bocca aperta. Villa O’Higgins è un gioiello incastonato tra le Ande e i miradores sulle colline del versante orientale lasciano spaziare lo sguardo sugli incantevoli dintorni fino a solcare le acque celesti del lago O’Higgins e immaginare di arrivare dall’altra parte, in Argentina. Questa volta decido di stare in un ostello, El Mosco, punto di ritrovo per chi vuole attraversare il confine. Tre coppie di cicloviaggiatori arrivano a partono mentre sto qui, assieme a loro ripercorriamo con la memoria i punti salienti della strada più bella della Patagonia. Una volta salutati, esco nella veranda di legno dal gusto Far West e mi siedo sulla panca per assaporare gli ultimi istanti di Cile. Martin, il ragazzo che gestisce l’ostello assieme a Fili, sta rastrellando il ghiaino del cammino d’entrata. Il rumore metallico dei sassi contro il ferro si perde nell’ampio giardino in cui poche ore fa erano installate una coppia di tende. A sinistra si indovina l’imbocco della valle del Ghiacciaio Mosco, mentre a destra, più avanti, le montagne si dirigono verso l’orizzonte, tra bianco e azzurro. Patagonia…