Finally, Ushuaia

Finally, Ushuaia

Pieroad - Finally, Ushuaia

ALLORA

Quanto manca per raggiungere la Fine del Mondo?

Sono appena uscito da Calafate, il pueblo da ventimila abitanti che sancisce l’accesso al ghiacciaio più famoso del Sudamerica, il Perito Moreno. Il colosso alto 70 metri e lungo cinque chilometri è uno spettacolo impressionante. Ogni tanto i luoghi turistici ci azzeccano. Per di più, ho avuto fortuna: il giorno in cui sono andato a vederlo c’era la finale della coppa del mondo, dunque le passerelle e i belvedere erano praticamente deserti. Capita una volta ogni trent’anni…

Il vento soffia da occidente, come sempre. I Campos de Hielo Sur sono una fucina di tempeste nel cuore delle Ande, il cui discendente diretto è il paesaggio desolato della Pampa. Le piogge sono bloccate sull’altro versante della Cordigliera, quello cileno della Carretera Austral e dei fiordi, mentre qui, nella Patagonia argentina, la terra secca e ruvida è popolata da bassi arbusti spinosi. Uno di loro dà il nome al pueblo alle mie spalle, il calafate. Si tratta di un rovo con bacche simili ai nostri mirtilli, ma manca ancora qualche settimana perché il frutto sia maturo. L’estate, in questo emisfero, deve ancora cominciare.

Lascio Calafate portandomi a sud, la direzione che sto mantenendo da due anni a questa parte. Quito e la sua Mitad del Mundo, lettere in stampatello alla periferia della capitale ecuadoriana, distano ormai diecimila chilometri. Calcolo che per la Fine del Mondo, Ushuaia nell’isola di Terra del Fuoco, manchino ancora due mesi, forse meno. Faccio un rapido conto mentale: 250km per il confine cileno, poi 60 per Puerto Natales, una settimana abbondante. Pausa, lavaggio vestiti e rifornimento di cibo, disporre di una vera cucina consente di preparare qualcosa di sostanzioso da mettere sotto i denti per recuperare il peso perso durante il cammino: burro, uova e manjar - latte e zucchero, la nutella sudamericana. Da Puerto Natales sono 250 km per Punta Arenas, altra settimana. Punta Arenas - Brenda e Arturo, lei è nipote della Nelly che mi ha ospitato qualche mese fa nella zona centrale del Cile. Ho il contatto, mi fermerò qualche giorno a casa loro per stare in compagnia. Avrò voglia di leggerezza quando tornerò in città.

A che punto sono arrivato? Ah si, metà gennaio. Da Punta Arenas bisogna prendere un traghetto per Porvenir, siamo ancora in Cile ma passiamo dalla terra ferma all’isola di Terra del Fuoco. Fu Magellano a ribattezzarla così. I fuochi accesi da Yanama e Kawesk’ar dovettero impressionarlo non poco. Porvenir è piccolo, forse non mi fermo, c’è una stazione dei pompieri dove potrei chiedere ospitalità per la notte ma se arrivo presto forse posso percorrere una manciata di chilometri prima che faccia buio. C’è luce fino alle dieci/undici di sera, quindi anche cominciando a camminare a metà mattina ho tutto il tempo per macinare la tappa quotidiana da 40 km. Confine cileno a 130 km, questi sono 3-4 giorni. Terra del Fuoco è divisa da una linea retta, sinistra Cile destra Argentina. Vado a destra. Due giorni tesi per arrivare a Rio Grande, città industriale poco interessante, poi altri 200 km per Ushuaia. La fine del cammino in Sudamerica, il punto fermo a due anni di viaggio. La Fine del Mondo.

 

 

RIFLESSIONI SU STRADA

 

Emetto un profondo sospiro gonfiando la cassa toracica. L’ultimo migliaio di chilometri, diavolo. In momenti come questi si comincia a tirare le somme di quello che è stato, cercando di trovare o forse di dare un senso al tempo dedicato a tanta fatica. Qual è il filo conduttore che mi ha portato fin qui? Lentezza ovviamente, quella propria del viaggio a piedi. Ma anche bellezza, cioè lo scopo del lento viaggiare che fa incontare e conoscere i nomi di persone e cose. Ho trovato che la bellezza della conoscenza sia quella profonda che connette a ciò di cui facciamo esperienza. Una montagna può colpire per la forma slanciata, la vetta prominente o la cima incappucciata di neve che si staglia con il suo biancore contro il cielo azzurro. Però cosa rimarrà di lei una volta che avremo distolto lo sguardo? Un’immagine sbiadita archiviata nella memoria, forse una foto tra le migliaia raccolte con foga e dimenticate dentro a un’altra memoria, quella distante ed estranea del telefono. Nominare le cose è un tentativo di salvataggio che opera attraverso l’infatuazione. L’oggetto nominato passa da essere un oggetto a quell’oggetto, con un pizzico di sentimento che ci lega alla storia nata dall’incontro con lui. È così che il mio cammino ha senso: attraverso i nomi di ciò che ho conosciuto. Ande, deserto di Atacama, Belén, Pablo, Gian, Patagonia, Campos de Hielo, Becky, Pampa… In una pagina del diario ho trascritto i nomi di tutte le persone che mi hanno lasciato qualcosa. Ciascuna di esse è un capitolo di questa avventura e leggerle mi riporterà a quel momento in cui la storia è stata messa in scena.

 

Sono in compagnia di Ezio, il passeggino che porta tutto ciò di cui ho bisogno. Qualcuno direbbe che sono solo, ma penso che con il tempo Ezio abbia acquistato una personalità, limitando fortemente la sensazione di isolamento che i luoghi disabitati portano con sè. Di fatto, ci ritroviamo a parlare piuttosto frequentemente. Non è vero, amico mio?

“Certamente, vecchia carcassa. Nel regno della fantastia tutto è concesso. E tu stai sognando a occhi aperti”

“Mi sembra un’impostazione necessaria per fare il giro del mondo a piedi. Stasera dove dormiamo”?

In una terra punteggiata da rocce e arbusti la domanda potrebbe sembrare retorica ma il vento della Patagonia è famoso per non dormire mai. Ogni pomeriggio devo trovare un riparo, anche solo la parete di una casa diroccata. Ho inaugurato da poco la Namika 2, la nuovissima biposto 4stagioni della Ferrino, ancor più leggera e compatta della storica Manaslu. Anche se la nuova tenda è bassa e resiste bene al vento, preferisco trovare un posto riparato. Alla lunga il vento stanca e dopo una giornata di lotta togliere pressione dalle orecchie è un sollievo indescrivibile.

 

Ho segnato sulla mappa i punti che potrebbero offrire protezione. Arrivo a un rigagnolo d’acqua con un ponte accavallato nel mezzo, stanotte campeggerò qui, riparato dal basamento in cemento. Pianto la tenda e godo ciò che rimane del pomeriggio. Avendo appena lasciato la città, la cena di stasera è pronta per essere mangiata, non c’è neanche bisogno di scaldarla. Passo le restanti ore di luce tra lettura e osservazione del cielo. In questo angolo di mondo le nuvole corrono velocissime.

 

 

UNA LUNGA STRISCIA DI TERRA

 

Le giornate verso il Cile proseguono con ricchi colpi di scena. Alla vigilia di Natale vengo invitato a condividere un arrosto di agnello da Javier, l’incaricato della manutenzione della strada del puesto fijo Tapi Aike, una sorta di casa cantoniera. Ne ho incontrate diverse nel percorso lungo la Ruta 40, la strada che parte dal confine con la Bolivia e arriva fino all’estremità sud dell’Argentina. Ogni volta ho trovato ospitalità, che fosse un posto dove piantare la tenda o persino una doccia; in questo caso, un pasto ricco e abbondante in compagnia di Javier e due cicloviaggiatori tedeschi. Passo Natale camminando e la sera arrivo alla frontiera con il Cile. Anche qui riesco a rimediare qualcosa di caldo da mettere sotto i denti. Questi posti isolati sono mantenuti in funzione da giovani soldati che vengono assegnati per un periodo di cinque anni, lontano dalle loro famiglie e amici. I ragazzi - abbiamo la stessa età - attendono una novità che spezzi la monotonia delle loro giornate e questa volta sono io a portargliela: un ragazzo è arrivato a piedi dall’Ecuador!

 

Il 26 dicembre torno nell’amato Cile, la lunga e stretta striscia di terra dove ho vissuto per l’ultimo anno. Arrivo a Puerto Natales, dove conosco altri cicloviaggiatori presso il campeggio più economico della città, e proseguo alla volta di Punta Arenas. Capitano un paio di giorni con vento molto forte, tanto che per una volta preferisco passare la giornata in tenda e riposare. Sarebbe una fatica stupida spingere contro un vento da 100 km/h che soffia in direzione opposta. Sbirciando dall’oblò della Namika posso scorgere alcuni placidi guanacos brucare l’erba rinsecchita e grazie a un colpo di fortuna riesco a vedere anche un ñandú, lo struzzo patagonico.

 

Approdo sull’isola di Terra del Fuoco a metà gennaio. Sono in linea rispetto al programma che avevo pensato, dunque decido di rallentare la marcia per approfittare degli ultimi giorni sulla strada. Prima di partire per l’Australia passeranno quasi due mesi, non c’è fretta di arrivare. Inoltre, sul lato cileno dell’isola, ci sono diversi rifugi dove ripararsi. Si tratta di fortini in legno pensate per pastori e pescatori, dentro sono prive di arredamento ma il conforto di quattro pareti e un tetto è la ricompensa più dolce dopo una giornata di cammino. Al riparo dagli elementi atmosferici, cucinare torna a essere un’attività piacevole. Mi accorgo di quanto sia felice anche solo per un tenue fuoco a scaldare l’acqua: viaggiando si impara che davvero nulla è scontato.

 

Il confine di San Sebastian segna l’ultimo saluto al percorso in Cile. Ci sono voluti 6000km, la metà di quelli compiuti in Sudamerica, per attraversarlo da cima a fondo; credo di essere stato la prima persona a farlo tutto a piedi. Mentre passo la frontiera, rifletto. Ho veramente viaggiato in Cile? Penso che la risposta sia negativa perchè in cuor mio sento che in realtà ci ho vissuto. Si tratta della quantità di tempo, certo: mentre studiavo all’università sono stato in Erasmus per dieci mesi e quando racconto di quel periodo è normale dire “Ho vissuto all’estero”, dunque per uguaglianza di termini viene naturale dire che anche stavolta ho “vissuto” in Cile. Tuttavia, c’è dell’altro. La ricchezza di esperienze in questo paese non ha eguali in questo viaggio. Ho vissuto assieme a decine di famiglie che mi hanno ospitato lungo la strada, conoscendone i ritmi, le riflessioni politiche e i sogni, accompagnandole a fare la spesa, la fila alle poste e al comune. Mi hanno insegnato i loro modi di dire, le feste di ciascuna regione e i preparativi con cui si appronta la casa per l’arrivo dell’inverno. Sorseggio mate fumante davanti a una stufa a legna, portando il calore dentro allo stomaco. Non è più solo un viaggio, questa è la mia vita, io ora vivo così. Mi sposto, ma sento di vivere i luoghi in cui passo, lascio che mi rapiscano e finché sono qui, vi appartengo: ci vivo. Non viaggio più da un posto all’altro ma mi trasferisco da un luogo in cui risiedo temporaneamente a un altro. L’America Latina non è più dove sono stato, ma dove appartengo.

 

 

FINE…?

Giungo a Ushuaia una decina di giorni dopo, fisicamente e mentalmente provato. L’ultima vera pausa risale a otto mesi fa, quando a Santiago aspettavo il visto per l’Australia. Percorro il lungo mare fino al cartello alto due metri con la scritta “Ushuaia, Fin del Mundo” e non sento alcun brivido particolare che celebri l’arrivo. Fa strano, pensavo di commuovermi, e invece… Guardo Ezio e sorrido. Siamo arrivati alla Fine del Mondo, la strada termina qui. È arrivato il momento di cambiare rotta e cominciare a tornare. Ci sono voluti due anni e mezzo per arrivare all’estremo sud della Terra ed è probabile ce ne vogliano altrettanti per rivedere casa. Volgo lo sguardo a occidente. Oltre l’Oceano Pacifico, di là delle isole del paradiso, un altro mondo ci attende, un gigantesco e misterioso deserto rosso fitto di aspettative. Australia…