Sato Pyramide: una cima inviolata in Himalaya per Silvia Loreggian e Stefano Ragazzo

Sato Pyramide: una cima inviolata in Himalaya per Silvia Loreggian e Stefano Ragazzo

Sato Pyramide

Le due guide alpine padovane nello scorso mese di ottobre hanno salito una nuova via in stile alpino su una vetta inviolata di 6100 metri nel gruppo del Kangchenjunga. Ferrino è stato al loro fianco, mettendo a disposizione sacchi a pelo e tende d'alta quota

 

Silvia Loreggian e Stefano Palazzo sono due giovani guide alpine di origine padovana, compagni di cordata come nella vita. Dopo aver scalato in lungo e in largo nelle Alpi, dalle Dolomiti al Monte Bianco e aver visitato luoghi mitici come la Patagonia e la Terra del Fuoco, il loro sogno era vivere una grande esperienza fra le selvagge montagne dell'Himalaya.

Sogno che si è realizzato nello scorso mese di ottobre, quando Silvia e Stefano hanno portato a termine la prima salita di Kalypso, la nuova via di 600 metri che li ha portati a toccare la vetta del Sato Pyramide, cima nepalese ancora inviolata di 6100 metri, nel gruppo del Kangchenjunga.

"Per noi l'Himalaya ha sempre rappresentato un luogo molto speciale, una dimensione diversa da tutte le altre, dove ancora si può vivere un'avventura totale - racconta Silvia - Sono montagne e vallate immense, dove c'è ancora spazio per la scoperta e l'esplorazione. Volevamo assaporare tutto questo cercando di realizzare una bella scalata su una delle tante vette che ancora attendono di essere scalate, stando alla larga dai luoghi più turistici e frequentati".

La ricerca di Silvia e Stefano li ha portati a focalizzare l'attenzione sull'area del Kangchenjunga National Park, in Nepal, dove, attorno al celebre colosso di 8586 metri, si innalzano imponenti vette di 7000 metri come lo Jannu, su cui sono state scritte alcune delle più belle pagine dell'alpinismo tecnico in alta quota, e una selva di 6000 che ancora attendono la prima salita.

"Le vallate che stanno attorno al Kangch ci hanno subito affascinato perché sono zone ancora poco frequentate dal turismo escursionistico e alpinistico. Lì all'inizio abbiamo individuato lo Sharphu III, una montagna di circa 6200 metri. Nel database del governo nepalese però la cima dello Sharphu III risulta toccare quota 6800, e questo avrebbe fatto lievitare i costi per i permessi di scalata ad una cifra troppo superiore alle nostre possibilità. Quindi abbiamo deciso di puntare al Sato Peak, che tocca anch'esso i 6200 metri e presenta una bella parete Nord".

 

Nel cuore dell'Himalaya

Il cambio di programma si è rivelato tutt'altro che un ripiego e l'avventura di cui Silvia e Stefano erano in cerca è cominciata sin dalle prime fasi dell'avvicinamento: "Per arrivare alla base della montagna abbiamo dovuto risalire la piccola valle situata fra i villaggi di Ghunsa e Kambachen, dove da parecchi anni nessuno ha più messo piede - continua Silvia - Per fortuna il pastore locale che ci ha aiutato con i suoi due yak a trasportare le attrezzature era fra quelli che tempo addietro si erano spinti fin dentro la valle. Grazie a lui siamo riusciti a trovare il passaggio fra i ripidi versanti, dove gli yak hanno dovuto sfoderare tutta la loro abilità "alpinistica", e abbiamo individuato un pascolo a 4500 metri, dove scorre un piccolo corso d'acqua. Lì abbiamo installato il campo base. Una volta salutato il nostro amico l'avventura che cercavamo ha avuto davvero inizio: eravamo da soli, nel cuore dell'Himalaya, circondati da un infinità di vette, fra cui la più bassa raggiunge una quota superiore a quella del Monte Bianco. Un senso di immensità che non avevamo mai provato, neppure in Patagonia. Un po' la cosa ci faceva paura: cosa sarebbe accaduto se ci fossimo trovati in difficoltà o avessimo avuto bisogno di soccorsi? Soprattutto, però, eravamo felici di essere lì!".

Come in ogni avventura che si rispetti non sono mancate le sorprese e gli inconvenienti: "L’acclimatamento è cominciato salendo fino alla base del Sato Peak, dove abbiamo installato un campo avanzato a 5300 metri. Ben presto però ci siamo resi conto che l'idea di fare la parete Nord non era realizzabile. La linea che avevamo individuato era una bella goulotte che volevamo percorrere con la tecnica della piolet traction, ma purtroppo non c'era traccia di ghiaccio o neve pressata: ad ogni passo profondavamo di mezzo metro in una coltre di neve inconsistente e i ramponi arrivavano a toccare la roccia sottostante. Dopo qualche tentativo abbiamo deciso di rinunciare per tentare lungo un diverso itinerario".

 

In vetta al Sato Pyramide

Dopo un paio di giorni al campo base per recuperare le energie e riordinare le idee Silvia e Stefano hanno deciso di provare la salita lungo la cresta Sudest, più rocciosa e quindi più sicura, viste le condizioni della montagna.

"Il 31 ottobre alle 4 e mezza del mattino abbiamo lasciato il campo avanzato, diretti verso la cresta - ricorda Silvia - Faceva davvero molto freddo e il termometro segnava i -20, ma sapevamo che non appena il sole fosse spuntato da dietro le creste dello Jannu le cose sarebbero migliorate. Dopo la faticosa risalita del ghiacciaio siamo riusciti a trovare il punto di accesso alla cresta. Anche qui abbiamo cercato di percorrere i tratti nevosi sul lato nord, ma ogni volta la neve inconsistente ci ha costretto a tornare sul filo di cresta. Siamo saliti fra tratti di roccia marcia e instabile e altri più compatti e ripidi, con alcuni passaggi tecnici e divertenti in arrampicata. Abbiamo impiegato sei ore per raggiungere l'anticima del Sato Peak, di poco più bassa della vetta principale e separata da quest'ultima da un'affilata cresta segnata da seracchi e cornici. Le condizioni della neve però erano sempre le stesse e quindi abbiamo deciso di interrompere la salita su questa vetta ancora senza nome, che abbiamo battezzato Sato Pyramide".

Il ritorno a valle non è stato dei più semplici. I due alpinisti sono scesi lungo la via di salita e, nel tentativo di aggirare un torrione che salendo avevano affrontato in arrampicata, si sono trovati sul versante sud, su un terreno piuttosto instabile, perdendo tempo prezioso nel tentativo di riportarsi sulla cresta. Con l'arrivo della sera e le temperature in calo il timore di dover trascorrere una notte di bivacco cominciava a profilarsi. Fortunatamente però, con le ultime luci del giorno sono riusciti a raggiungere, il campo avanzato, la sicurezza della tenda e il tepore dei sacchi a pelo Ferrino.

"Nei giorni immediatamente successivi all'ascensione sentivamo un po' di rammarico per come erano andate le cose - conclude Silvia - Eravamo venuti fin lì con l'idea di realizzare una bella salita con ramponi e piccozze e invece ci eravamo ritrovati a scalare su una cresta rocciosa non proprio solidissima. In più avevamo dovuto rinunciare alla vetta principale. Col passare del tempo però la gioia per l'esperienza straordinaria che abbiamo avuto il privilegio di vivere ha preso il sopravvento. Abbiamo chiamato la nostra via Kalypso, come la ninfa che fece innamorare Ulisse tenendolo prigioniero sulla sua isola. Anche noi, in fondo, siamo prigionieri dell'amore per la montagna e l'avventura".