KINNAUR HIMALAYA

KINNAUR HIMALAYA

AL CONFINE TRA ORDINE E CAOS

Kinnaur Himalaya, al confine tra ordine e caos

KINNAUR HIMALAYA, AL CONFINE TRA ORDINE E CAOS

“Kinnaur Himalaya, al confine tra ordine e caos” è un libro, un’esperienza e il frutto di una ricerca pluriennale, condotta da Emanuele Confortin, con finalità giornalistiche e divulgative.
L’ambientazione è in contesto tribale, in Kinnaur, Himalaya indiano, all’interno di una comunità poco nota, ma ugualmente minacciata nella propria integrità dai cambiamenti climatici, dalle migrazioni, dalla militarizzazione seguita alla crisi indo-cinese ai confini, dalla contaminazione culturale e, allo stesso modo, dalle seduzioni di una delle economie più vivaci del pianeta.

Lo scopo di questo libro, stampato poche settimane fa, è di proporre una visione d’insieme, necessaria per inquadrare questo distretto himalayano nel proprio contesto culturale, ambientale e geopolitico. L’Himalaya appunto, un’enorme dorsale montuosa posta nel cuore dell’Asia. Luogo di confini e di contese. Territorio minacciato dal cambiamento climatico, dove inizia il corso dei grandi fiumi dai quali dipende la sopravvivenza di centinaia di milioni di persone, addensate nel continente più popolato al mondo.

 «Conoscere l’Himalaya significa conoscere l’Asia», suggeriva un ventiquattrenne giornalista dell’Hindustan Times, arrivato in Kinnaur dopo ventiquattro ore di bus da New Delhi per «dare uno sguardo» alle grandi dighe in costruzione nella valle del fiume Sutlej. Probabilmente è vero, l’Himalaya è lo specchio dell’Asia, ma in queste pagine mi limiterò a uno scampolo di territorio, al Kinnaur e allo Spiti. Non intendo proporre alcuna verità, ma voglio limitarmi a riportare quanto emerso da un lungo lavoro sul campo, e da un’ancor più lunga rielaborazione postuma. Partire dal micro per inquadrare il macro. 

Cerchiamo di inquadrare il progetto, da una testimonianza del suo autore, Emanuele Confortin.


LE ORIGINI DEL PROGETTO

Sono partito per il Kinnaur nell’autunno 2003, sapendo poco o nulla di questa remota striscia di terra nel cuore dell’Himalaya indiano.

Ottanta chilometri di lunghezza per cinquanta di larghezza, confinanti a nord con il distretto di Lahaul e Spiti, a est con il Tibet (Cina), a ovest con la provincia di Shimla, a sud con il Garhwal e a sud-est con le valli del Kullu.

L’idea del Kinnaur è uscita quasi per caso, nell’autunno del 2001, mentre sfogliavo una rivista reperita in un baracchino per il tè, a New Delhi. Il trafiletto ormai sbiadito descriveva una regione selvaggia e incontaminata, abitata dai Kinnauri, gruppo tribale che pratica una religiosità arcaica. Nelle poche righe concesse al distretto, c’erano tutti gli elementi che cercavo: «territorio remoto nel cuore dell’Himalaya», «non ancora interessato dal turismo di massa», «sacerdoti posseduti dalle divinità», «esorcismi, trance, demoni, musici celesti». La scelta di raggiungere quella regione prese forma in quel momento. Là avrei speso alcuni mesi della mia vita, con ogni probabilità tra i più importanti di sempre, non solo per scrivere la mia tesi di laurea.

Gli appunti lasciati sui taccuini dell’epoca fissano il mio arrivo nel distretto il 16 settembre 2003, dopo una settimana di viaggio. Una volta arrivato in Kinnaur, ho posto la mia base a Kalpa, villaggio adagiato su una conca soleggiata, a 3000 metri di altezza. L’abitato sorge nella parte centrale del distretto, in vista del corso del fiume Sutlej e della mole del Kinner Kāilash, la montagna sacra dei Kinnauri. Non sapevo ancora cosa aspettarmi da quel luogo. Giorno dopo giorno, mi sarei calato nei ritmi del villaggio, sfiorando una cultura antica, lontana anni luce dall’Occidente che mi lasciavo alle spalle, ma non per questo immune agli effetti della globalizzazione. Avrei ascoltato gli inni sacri al tempio del villaggio; visto ondeggiare le trecce nere dei palanchini processionali delle divinità; bevuto robuste sorsate di rak, il vino rituale, versato dai sacerdoti direttamente nelle mie mani; osservato lo sguardo spiritato dei grokch, gli oracoli, durante la trance; corso impaurito nel buio, confuso tra realtà e suggestione per sfuggire ai demoni di cui tutti parlavano; infine, partecipato a un esorcismo, culminato con la decapitazione di un agnello sacrificale.

Il lavoro svolto sul confine Sino-indiano mi ha portato poi a vivere tra i pastori migranti in arrivo dal Nepal; a superare la “tempesta perfetta” cercando riparo al Ki Gompa, uno dei più importanti monasteri buddisti dell’Himalaya indiano. Poi gli infiniti viaggi negli autobus dell’Himachal Road Transport Corporation, vere e proprie scatole di latta in equilibrio su pneumatici lisciati dalle asperità del terreno. Le marce in quota sull’Apita Valley, dove alcune centinaia di persone vivono dodici mesi all’anno in alcuni dei villaggi più alti al mondo.

RI-ATTUALIZZARE LA RICERCA

Quindici anni dopo essere partito per il Kinnaur (nel 2018), rileggendo gli appunti dell’epoca, sfogliando le diapositive realizzate a Kalpa, a Roghi, a Chitkul o nel vicino Spiti, mi sono reso conto che l’indagine di una tradizione arcaica come quella kinnauri debba essere contestualizzata. Non posso prescindere dalla componente sociale, ambientale e geopolitica che caratterizza quest’angolo di Himalaya. Il lavoro svolto sul campo risulterebbe sterile se fosse svincolato dall’esperienza umana vissuta. Per questo, dopo le esperienze del 2003 e del 2005, sono tornato in Kinnaur, esattamente tre lustri più tardi, con la maturità di un (quasi) quarantenne e il punto di vista di un giornalista, innamorato del lavoro sul campo.

Al termine di altri due mesi e mezzo in Kinnaur e Spiti, a novembre 2018 ho fatto rientro in Italia con le stesse impressioni della prima volta, consapevole di aver vissuto un’esperienza unica. Del resto, già nel 2003, dopo il “primo” Kinnaur la mia vita era cambiata. Rimanere da soli, così a lungo, in Himalaya basta a intaccare le proprie convinzioni, o se non altro, impone di mettere in discussione la prevalenza della cultura da cui si proviene. «Là fuori c’è dell’altro e merita di essere conosciuto» è stata una delle prime e più importanti lezioni che ho imparato dall’esperienza in Kinnaur, sin dal primo viaggio. Un pensiero tanto semplice, quanto forte nelle sue reali intenzioni da aver condizionato le mie scelte future, se non altro professionali. Da giovane studente sentivo che il mondo da cui provenivo stava perdendo l’occasione di ammettere l’esistenza di prospettive diverse; né migliori né peggiori, semplicemente lontane, “altre”, per questo degne di essere conosciute.

Ora, nel 2019, la mia esperienza è stata stampata in un libro intitolato "Kinnaur Himalaya, al confine tra ordine e caos" Questa lunga e profonda regione indiana dell'Himalaya è un'opera autoprodotta, distribuita attraverso circuiti diretti.
La spedizione di Emanuele Confortin del 2018 è stata supportata, tra gli altri, da Ferrino. Per informazioni sulle date e le città in programma, o per acquistare una copia dell’opera, scrivere a [email protected]

Fonte: Alpinismi