UN GIRO DEL MONDO A PIEDI

UN GIRO DEL MONDO A PIEDI

La storia di Nicolò Guarrera, partito alla ricerca di domande

Un giro del mondo a piedi - La storia di Nicolò Guarrera, partito alla ricerca di domande

Si chiama Nicolò Guarrera, ma si sta facendo conoscere come Pieroad. Veneto, classe 1993, da qualche tempo ormai cammina. Poco dopo il primo lockdown è partito puntando a ovest. Con se aveva qualche vestito, un cellulare, un carrellino con l’essenziale per vivere e un sorriso aperto sul mondo.

Macina chilometri a ritmo lento Pieroad, punta a girare il mondo a piedi, assaporandone l’umanità e magari trovando qualche risposta a all’inafferrabile della vita. Noi di Ferrino l’abbiamo accolto nel nostro team scegliendo di supportare Pieroad in questo suo lungo cammino. A oggi ha percorso oltre diecimila chilometri e si trova in sud America. Il viaggio è ancora lungo, ma pian piano va compiendosi, incontro dopo incontro, passo dopo passo. 

 

Ciao Nicolò, partiamo da te. Veneto, classe 1993, poi?

La mia vita è stata un continuo cambiamento, così adesso ho scelto di fare il pellegrino per un periodo più lungo. Ho deciso non di viaggiare, ma vivere una parte delle mia vita camminando, da nomade. Sto inseguendo alcune domande, non tanto per darle una risposta. Sono in cerca di quella disposizione d’animo che comporta la loro ricerca perché, benché tormentata, è quella in cui trovo più senso.

 

Quesiti complessi se sta servendo “un giro del mondo a piedi” per scavare nella loro essenza…

Camminare è il mio atto di libertà. Sento il bisogno di avvicinarmi a una dimensione essenziale della vita, è camminare è il modo più umano per farlo. È l’unico modo totalmente umano per muoversi. Camminare significa vivere il percorso con lentezza, aprendosi alla contaminazione perché si presta più attenzione ai dettagli e al cambiamento. Ci si incuriosisce, quindi ci si affeziona, è questo un ottimo modo per interessarsi ai fatti della vita.

E poi, vuoi mettere la soddisfazione di essere riuscito a farla tutta a piedi? È una lenta, caparbia e faticosa costruzione di significato che alimento ogni giorno. Ne sento dentro l’importanza e il valore, non il prezzo.  

 

Sei partito poco dopo il primo lockdown… una scelta difficile o un moto di libertà?

Direi una scelta ponderata a lungo. Avevo già deciso prima che scoppiasse la pandemia da Covid-19. Due settimane prima avevo lasciato il lavoro e avevo identificato il 3 maggio come data per la partenza. La pandemia ha poi complicato le cose.

Quando, in estate, la situazione è migliorata ho riflettuto sul da farsi. Ho anche pensato di tornare a lavorare e rimandare il progetto di un anno, poi mi sono deciso a rischiare e il 9 agosto sono partito.

 

Perché rischiare?

La lentezza è una delle ricerche di questo viaggio. Se fosse arrivata una seconda ondata e mi avesse colto con un lockdown, mi sarei fermato, avrei aspettato, e nel mentre avrei cercato di vivere il luogo in cui ero capitato e le storie che aveva da raccontare. Valeva la pena rischiare. Inoltre la testa era già settata su quel tipo di vita, ero proiettato verso lunghe camminate e cambi di panorama. Rimandare aprendo una parentesi di un anno avrebbe richiesto uno sforzo mentale che non avevo intenzione di compiere.

 

Come hai costruito il tuo percorso?

In principio pensavo di incamminarmi verso est, verso Balcani e Turchia. Tuttavia il salto mi sembrava troppo grande, sia in termini culturali che burocratici. Andare verso occidente significava invece iniziare a estendere la zona di comfort gradualmente, passando i primi tre mesi tra Italia, Francia e Spagna. Paesi “vicini” a noi in tutti i sensi e facilmente percorribili. Avrei potuto seguire la rete dei cammini di Santiago e contare sulle strutture di ricezione lungo la strada e sulla compagnia, che speravo avrei incontrato. Inoltre non dovevo fare alcun tipo di visto, il che significava che se fosse arrivato un secondo lockdown, mi sarei potuto fermare senza timore di scadenze. È stato come scegliere di viaggiare verso il noto, per approcciare lentamente l’ignoto.

 

Hai previsto 4 anni di viaggio, ti senti mai solo a immaginarti via per così tanto tempo?

Non provo mai solitudine, perché essere soli significa sentirsi estranei rispetto a un contesto. La sfida è sentirsi a proprio agio in situazioni sempre nuove. Piuttosto sento nostalgia. Nostalgia che uso per scrivere e per dare ancora più valore a ciò che ho lasciato a casa, a ciò che ho sacrificato per realizzare il mio sogno.

 

Cosa intendi con “sacrificato”?

Per me ha un valore preciso, significa rendere sacro. I legami che ho sono diventati sacri per me, ancora di più allontanandomi fisicamente dalle persone con le quali li mantengo vivi. Quando rientrerò raccoglierò i frutti di questo sacrificio e le amicizie e i vincoli familiari avranno un valore ancora più grande rispetto a quando sono partito.

 

A proposito di legami, come hanno preso parenti e amici questa tua decisione?

Gli amici con serenità: alcuni si aspettavano qualcosa del genere, altri sono stati presenti nel periodo in cui incubavo l’idea quindi erano preparati. Tutti erano curiosi di sapere i dettagli. 

In famiglia ovviamente è stato diverso, ma i miei genitori sono di una saggezza veramente fuori dal comune e dopo avermi chiesto qualche giorno per rifletterci hanno detto che per loro andava bene e anzi, avrebbero voluto far parte di questo progetto. Hanno chiesto ci sentissimo con regolarità, dove possibile, e che stipulassi un’assicurazione medica, normale. E poi mi hanno detto: siamo preoccupati, siamo i tuoi genitori e anche se sei adulto ci sentiamo ancora responsabili per te; ma se tu sei felice, noi lo siamo con te.

 

Per costruire la tua esperienza ti sei confrontato con altri viaggiatori che hanno vissuto emozioni simili?

Ho studiato un bel po’, cominciando da chi lo aveva fatto prima di me. Una manciata di persone ci è riuscita (meno di quelli che sono andati sulla luna a dire il vero!). Ho letto i libri che hanno scritto, i loro siti/blog e raccolto informazioni sui loro percorsi. Poi ho cercato chi aveva fatto viaggi in quei luoghi, anche con altri mezzi, e li ho contattati tramite i social per raccogliere altri spunti. L’obiettivo era duplice: conoscere a fondo per dove sarei passato e creare una rete di contatti sulla quale poter fare affidamento.

 

A livello logistico invece?

Ho lavorato sulle tracce, sugli itinerari mettendo dentro ciò che volevo vedere e allineando i punti secondo un percorso che avesse senso. In questa fase ho studiato altimetrie, distanze tra centri abitati, quali visti mi sarebbero serviti, dove le tensioni sociali erano pericolose e soprattutto le stagioni: non volevo andare in sud-est asiatico con i monsoni né attraversare l’outback australiano in piena estate. Un passo alla volta il cammino prendeva forma e dopo diversi mesi sono “tornato a casa”, disegnando le ultime tracce dal confine sloveno alla mia città. Mi ha fatto uno strano effetto, penso che quando succederà veramente sarà molto intenso.

 

Viaggiare porta con se momenti belli e brutti, ti sei già trovato a vivere momenti di grande preoccupazione?

C’è un fil rouge che accomuna tutti i paesi in cui sono stato: la penosa attenzione della popolazione verso l’ambiente. Dall’Italia al Perù, con qualche differenza ma nessuno escluso. Non mi dilungo su osservazioni puntuali o le conseguenze che tutti conosciamo. La diversità è una cifra della bellezza e la diversità delle forme di vita sulla terra è una delle cose più belle che sta scomparendo più in fretta e per la quale non c’è speranza di recupero. Ogni volta che lo vedo vivo un momento di una bruttezza disarmante perché mi rendo conto che stiamo perdendo questa bellezza a causa della pigrizia: nessuno vuole rinunciare, anzi, sacrificare alcune comodità per dare il suo contributo.

 

Quello più bello invece?

Un momento di ospitalità. Ero in Ecuador per la prima notte e mi trovavo nel pueblo di Tumbaco, alla periferia di Quito. Ero diretto li perché un ragazzo mi avrebbe ospitato. Quella notte pioveva e io continuavo a vagare per le strade ricercando la casa di David, il ragazzo che mi avrebbe offerto un letto. Ancora non avevo la sim locale, quindi non potevo nemmeno chiedere informazioni. Poi, sono riuscito a trovare il cancello. Ho suonato, ma nessuna risposta. Il cancello era aperto, così sono entrato. Dentro anche non c’era nessuno. Son entrato in casa, tutto spento. Mi sono guardato attorno, fin quando sul tavolo ho trovato un biglietto: “Ciao Nico, scusa ma sono stato trattenuto a lavoro, purtroppo non riuscirò ad esserci per quando arrivi. Ti ho lasciato la porta aperta, fai come fossi a casa tua. Doccia e letto sono a tua disposizione, la dispensa è sopra la cucina. Riposati, ci vediamo uno di questi giorni a Quito!”

Quella notte ho dormito come un bambino, non penso ci sia altro da aggiungere.

 

Ti lasciamo tornare al tuo cammino, ma prima svelaci il posto più bello camminato finora…

Canyon del Pato e deserto di Atacama. Ma vi racconto del primo, perché l’Atacama già si conosce. Il Rio Santa ha scavato questo canyon che si snoda da Caraz, un pueblo delle Ande peruviane, alla costa. Il paesaggio, manco a dirlo, è stupendo. Imponenti massicci rocciosi si stagliano superbi sopra al fiume, hanno pareti scoscese che si colorano di rosso, oro, nero, bianco e grigio a seconda dei minerali intrappolati lì milioni di anni fa. Il corso d’acqua rumoreggia gentile e si allarga in spiazzi minuti, la vegetazione è ricca lungo le sue sponde sinuose e offre riparo dalla calura del sole. Ci sono centri abitati, più che villaggi: sparuti gruppi di case dove posso rifornirmi di acqua. Ricordo che il terzo giorno, la mattina, non riuscivo ad andare avanti. Mi fermavo al margine della strada ridendo da solo per quanto bello era il paesaggio. C’erano alberi di mango attorno a cascate bianche e i colpi d’occhio che si aprivano dietro ogni curva erano uno spettacolo maestoso. Mi sono persino segnato il numero del chilometro dove ho visto lo scorcio più bello, ma questo è un segreto.